Connect with us

FATTI

Top e flop all’Expo 2015

Pubblicato

il

Difficile dire cosa sia veramente l’Expo. Da quando ha aperto ho visitato l’esposizione più di quindici volte. Da solo, con amici, colleghi. Perfino con la famiglia. Non saprei dare però una definizione univoca dell’evento. Forse perché è talmente enorme da poter vestire qualunque abito riesca a cicirle addosso ogni singolo visitatore. Una kermesse mondiale, una fiera da strapaese in chiave glocal, una immersione totale nel gusto del mondo. Ma anche una Gardaland dei sapori. O un frullato di gastronomia internazionale. Fate voi.

Una cosa penso di poter dire con certezza: l’Expo sta diventando un fenomeno sociale. Un punto di riferimento collettivo così potente da spingere perfino i milanesi a disertare i locali della movida notturna e trasferirsi in massa fra i padiglioni di Rho. Sbaglia chi la stronca senza neppure averla vista. Fra le tante cose che ho capito in questi giorni ce n’è una che mi sento di raccomandare a quanti fanno il mio stesso mestiere, il giornalista. Vale la pena di stare ad ascoltare i visitatori. Confondendosi con loro, ma senza interferire. Serve a capire i mille modi con i quali si può entrare in contatto con l’esposizione universale.

Top e flop, un gioco ma non troppo

Anziché compilare un elenco noioso e sconfinato fra padiglioni, stand, ristoranti, chioschi e tavole calde ho preferito dare ai lettori una serie di stimoli classificando il padiglione più divertente, quello più coinvolgente da un punto di vista culturale e delle tradizioni, il più comprensibile. E il loro contrario. In mezzo c’è una fenomenologia variegata e difficile da classificare. Sempre che sia davvero utile farlo. Il codice che ho utilizzato è quello degli opposti. Il meglio e il peggio, il top e il flop dell’esposizione. Per compilare l’elenco non mi sono lasciato influenzare dal giudizio dei visitatori, soprattutto a proposito di ristoranti. Ma ho scelto in base alle mie sensazioni. Ecco il risultato.

Divertimento

  • La grande folla davanti al padiglione brasiliano

Il padiglione più diverte in assoluto è senza dubbio quello del Brasile con la rete sospesa che porta i visitatori a camminare letteralmente nel vuoto, sopra alla flora caratteristica del Paese sudamericano. Una serie di sensori attivano luci e suoni in funzione del peso e della posizione di quanti sono presenti sul percorso. La rete è la metafora che testimonia la grande flessibilità e al contempo la varietà delle colture agricole brasiliane. Un’invenzione dello Studio Arthur Casas che ha centrato l’obiettivo di attrarre il pubblico accompagnandolo in una visita immaginaria attraverso le tradizioni, i paesaggi e i cibi che fanno di Brasilia una delle grandi capitali dell’alimentazione nel mondo.

Quanto a divertimento il flop è sicuramente quello del Vietnam. Gradevole nel complesso l’architettura, segnata da torri realizzate con canne di bambù, il padiglione di Hanoi non offre praticamente alcuna attrazione. Al piano terra ci sono prodotti dell’artigianato locale, sculture, maioliche e vasi. Al primo una serie di manichini che «sfoggiano» i costumi tradizionali vietnamiti: grossolani quanto basta per avere il sospetto che siano appena usciti da un magazzino di cinesate situato in una qualunque grande città italiana. Nelle prime settimane su alcuni schermi digitali era visibile un documentario su tradizioni, artigianato, agricoltura ed economa vietnamite. Da un certo momento in poi i monitor sono stati inopinatamente spenti. Tre minuti trascorsi in questo padiglione possono sembrare un’eternità.

Sostenibilità

  • Una delle quattro torri del padiglione svizzero

Il consumo intelligente è alla base di un futuro sostenibile. Ed è proprio questa la lezione che si può apprendere al padiglione della Svizzera, caratterizzato da quattro torri riempite ciascuna con un alimento diverso: l’acqua, il sale, il caffè, le mele. I visitatori possono servirsi di ciascun prodotto nella quantità che desiderano. Più ne prendono e più in fretta si svuoteranno le torri, modificando anche l’aspetto del padiglione. La parsimonia dei primi visitatori darà la possibilità agli ultimi di trovare ancora scorte disponibili. Nel caso in cui le torri venissero svuotate gli svizzeri hanno fatto sapere che non reintegreranno il contenuto con nuove forniture. Dunque il rischio è che qualcuno resti a bocca asciutta, proprio come accade nella realtà.

Ho deciso invece di appioppare alla Malaysia il titolo di padiglione flop quanto a sostenibilità. Non tanto per la struttura architettonica, quanto perché una saletta della struttura è destinata a convincere i visitatori che l’olio di palma, al centro di polemiche infinite, sia il miglior grasso vegetale esistente al mondo. Preferibile perfino all’olio extravergine d’oliva. Stolti noi europei che ci ostiniamo a non prenderne atto e lo avversiamo in ogni modo! Una operazione di green washing in piena regola, nel tentativo di rendere presentabile quel che io realtà non lo è. Oltre alle perplessità sulle caratteristiche nutrizionali dell’olio di palma, infatti, i grandi Paesi produttori come la Malaysia (seconda al mondo dietro l’Indonesia), sono sotto accusa per le imponenti deforestazioni compiute far far posto alle palme da olio, talmente vaste da modificare in maniera permanente l’ecosistema locale.

Tradizioni

  • L'accesso al padiglione dell'Oman, che ospita anche un ristorante

Uno dei Paesi che all’Expo racconta più fedelmente le proprie tradizioni alimentari è l’Oman. Nulla di sconvolgente, ma almeno il visitatore viene condotto per mano attraverso un itinerario al termine del quale sa di cosa si cibino gli omaniti, come mangino e a gradi linee anche perché la cucina del sultanato privilegi alcuni ingredienti a discapito di altri. All’estremo opposto la Moldova, anche se alla voce «tradizioni tradite» l’elenco è lungo. Il padiglioncino moldavo c’entra come i cavoli a merenda e si presterebbe benissimo a ospitare, indifferentemente, una farmacia in zona periferica o i venditori di un autosalone.

Pertinenza

  • Il campo verticale allestito al padiglione israeliano

Rispetto al tema dell’esposizione universale, «nutrire il pianeta», la presenza più centrata è senza dubbio quella di Israele. Il campo verticale, uno degli elementi d’attrazione dell’intera Expo e soprattutto il racconto di come i coloni ebrei siano riusciti a strappare al deserto vaste aree trasformate in campi coltivabili: senza dubbio una risposta significativa alla sfida di dar da mangiare a chi non ne ha. Un po’ scolastico il percorso all’interno del padiglione, poco evidenti gli ultimi sviluppi con i sistemi d’irrigazione goccia a goccia alimentati da pompe a pannelli solari. Nel complesso, comunque, lodevole l’ambientazione e l’obiettivo che si sono dati gli israeliani.

Fra i meno pertinenti il padiglione dell’Olanda che per attrarre i visitatori mette in mostra un luna park in miniatura e li accoglie con un chiosco dove si servono mini pancake alla Nutella. Tutto in piccolo, anche l’immaginazione di chi ha progettato la presenza olandese all’Expo.

Comprensibilità

  • L'ingresso del padiglione coreano alla domenica mattina, senza le consuete code

La Corea ha scelto una soluzione pertinente l’Expo e anche molto comprensibile, con il racconto delle proprie tradizioni alimentari, a partire dagli onggi, orci in terracotta in cui da secoli i coreani fanno fermentare i cibi, anche per svariate settimane. Lo slow food all’orientale, spiegato in maniera chiara e coinvolgente. Con quel tanto di tecnologie digitali capaci di avvincere i visitatori, ma mai fine a loro stesse.

All’estremo opposto il padiglione della Gran Bretagna che utilizza la metafora dell’alveare. La visita si ispira al movimento di un’ape, a partire da un’orchidea, passando per un prato fiorito fino al ritorno all’alveare. Come sottofondo i rumori registrati in un vero alveare in Regno Unito. Bello ma un po’ (tanto) criptico.

Architetture

  • La bolla di cristallo che domina l'ingresso le padiglione azero

Tanto è attraente ed emozionante il padiglione dell’Azerbaijan, altrettanto è scontato e brutto quello sudanese. Il primo è frutto dello sforzo creativo e progettuale di Simmetrico Network, un gruppo di creativi fondato nel 2007 a Milano da Daniele Zambelli. Il secondo ricorda un bunker e offre del Sudan un’immagine respingente. Grossolane le finiture.

Cultura

  • La ressa davanti al Padiglione Zero

Ideato da Michele De Lucchi, il Padiglione Zero è il condensato della cultura alimentare del mondo e offre una sintesi di quanto l’uomo ha prodotto dalla sua comparsa sulla Terra fino a oggi. Inclusi le trasformazioni del paesaggio naturale, la cultura del cibo e i rituali del consumo. Di non facile comprensione, la visita richiede una lettura attenta, sala per sala, dei pannelli che raccontano vizi e virtù dell’umanità. Ho visto molte scolaresche attraversarlo a passo di corsa: visitarlo in quel modo non serve a niente. Se questo è il top, il flop culturale è rappresentato dall’installazione degli Stati Uniti, frequentatissima da fiumane di ragazzotti che ambiscono a salire sull’ampia terrazza da cui si gode un ottimo panorama dell’Expo. Tutto lì.

Trasparenza

  • Un bancone al supermercato del futuro realizzato dalla Coop. Sopra alla merce le etichette aumentate

A innalzare il vessillo della trasparenza a tavola è Coop Italia che nel Future Food District ha realizzato il supermercato del domani. Tutto ruota attorno alle «etichette aumentate» che per ciascuna delle referenze in vendita, racconta origine, caratteristiche nutrizionali, condizioni di consumo e via dicendo. È uno dei pochi luoghi in tutta l’Expo (si contano sulle dita di una mano) in cui si parla di origine dei cibi e di materie prime alimentari. E dire che avrebbero dovuto essere fra i grandi temi dell’esposizione.

Tra i flop della trasparenza non c’è che l’imbarazzo della scelta. Ho deciso di indicarne uno che ha colpito più di tutti la mia immaginazione. Si tratta dell’Accademia Citterio, una salumeria con tanto di pizzicagnoli, prosciutti, salami e affettatrici. A fine spesa passare alla cassa, prego! È vero che nel Cardo Sud vi sono quasi esclusivamente esercizi commerciali a pagamento, ma almeno si poteva scegliere un altro nome, senza giocare sull’equivoco della dimensione culturale.

Ristoranti

  • L'ingresso del Bibigo che si trova al piano terra del padiglione coreano

Fra quelli etnici e che si possano veramente definire tali, con servizio al tavolo e al chiuso, il ristorante top è sicuramente il Bibigo coreano. Menù degustazione da 20-25 euro, piatti unici (e abbondanti) da 15 in su, personale educato e disponibile. Il flop è invece il Japan Star Dining famoso per lo scontrino da 115 euro: 5 per una bottiglietta d’acqua minerale e 110 per un piatto di pesce. Che potrebbe anche starci se il locale nipponico non fosse una via di mezzo tra una mensa aziendale con tanto di panconi in legno e la sala d’attesa di una Asl. Una volta fatto l’ordine e saldato (in anticipo) in conto ci si deve sedere aspettando pazientemente che sui monitor compaia il proprio numero di vassoio. Dopodichè si può ritirarlo e scegliersi il tavolo. Una mensa digitale, ma pur sempre una mensa.

Orientamento

  • La mappa cartacea che ho scarabocchiato per farmi uno dei tanti itinerari

Meno male che c’è ancora la carta! La mappa cartacea dell’esposizione surclassa quella digitale, accessibile dall’app ufficiale (qui il link), a cui manca però una funzione fondamentale per chi debba muoversi nel quartiere espositivo di Rho: la ricerca libera per parola chiave. Ne ho già parlato in un post precedente (eccolo) per cui non mi dilungo.La cartina fisica non è il massimo. Ad esempio i padiglioni in ordine alfabetico si trovano sul retro rispetto alla pianta, sotto la quale sono sì elencati, ma in ordine numerico. Stranezze (e minchiate) di chi l’ha pensata. Ma per disegnare un itinerario o trovare l’installazione di un Paese, è di gran lunga preferibile rispetto alla mappa digitale. Un caso di scuola di come i supporti tradizionali possano fare meglio rispetto a quelli interattivi. Soprattutto qualora l’autore digitale nel compilare il codice non pensi agli utilizzatori finali, i visitatori, ma al cliente che gli ha commissionato la app.

FATTI

Le Terme di Salice a Massimo Caputi

Pubblicato

il

Massimo_caputi_Terme_di_Salice

Massimo Caputi, classe 1952, ingegnere civile, è il nuovo proprietario delle Terme di Salice, che ha rilevato all’asta martedì 13 luglio presentando un’offerta di un milione e 570mila euro. Si chiude così la vicenda del crac da 10 milioni di euro che portò alla dichiarazione di fallimento dello storico stabilimento termale da parte del Tribunale di Pavia tre anni or sono.
Pochi giorni fa Caputi si è aggiudicato il Nuovo Hotel Terme per una cifra di poco superiore ai 900mila euro.

Ma chi è il nuovo padrone delle Terme di Salice? Dire che possiede quelle di Saturnia – vera e propria meraviglia del benessere – e che recentemente ha rilevato dal Montepaschi il 47% di quelle di Chianciano è riduttivo. Senza dubbio Caputi, abruzzese di Chieti, ha competenza e capacità in abbondanza per rilanciare in chiave moderna il termalismo, dato per morto frettolosamente, assieme ai vecchi frequentatori degli stabilimenti termali. Quelli che li affollavano fino agli anni Ottanta, sottoponendosi a inalazioni, humages, nebulizzazioni e fanghi. Già, perché Caputi è un capitano di lungo corso dell’imprenditoria italiana. Negli ultimi trent’anni è transitato in molte delle aziende assurte a vario titolo agli onori delle cronache. Economiche e non solo.

DALLE STAZIONI ALLE BANCHE

Amministratore delegato di Grandi Stazioni, gruppo Ferrovie dello Stato, dal 1996 al 2002, dall’aprile dell’anno successivo al maggio 2006 è consigliere d’amministrazione della Banca Montepaschi di Siena. Nel frattempo – precisamente nel febbraio 2002 – assume la carica di amministratore delegato di Sviluppo Italia (ora Invitalia). Carica che mantiene fino all’ottobre 2005.

Massimo Caputi

Massimo Caputi, classe 1952, abruzzese di Chieti, è uno dei protagonisti indiscussi della finanza immobiliare italiana

Nel dicembre 2008 viene nominato vicepresidente del consiglio di amministrazione di Banca Antonveneta, entrata a far parte, proprio quell’anno, del gruppo Montepaschi, prima di essere incorporata dall’istituto senese cinque anni più tardi.
Dal maggio 2013 all’ottobre 2015 è vicepresidente esecutivo della Prelios, la ex Pirelli Real Estate. La salva da una fine ingloriosa, facendone una società modello.

IL SALVATAGGIO DELLA FIMIT

Consigliere di amministrazione della Luiss (2004-2007) e della Marzotto (2006-2007), qualche anno prima, per la precisione nell’agosto 2000 Caputi arriva alla Fimit, società di gestione del risparmio del Mediocredito Centrale e la salva dal disastro, raddrizzandone le attività e i conti. Vi resta fino al 2007 per poi rientrarvi l’anno successivo e guidarla fino al 2011. Nel 2001, da ceo di Fimit, lancia il Fondo Alpha, primo fondo immobiliare quotato in Borsa.

Dal 2017 Caputi è presidente delle Terme di Saturnia, acquisite da Feidos, società di specialisti di cui è il maggiore azionista, assieme al fondo speculativo americano York Capital. A febbraio 2021 rileva il pacchetto di maggioranza delle Terme di Chianciano, dove sta mettendo mano al portafoglio per un rilancio indispensabile.

IL POLO DEL BENESSERE

Ora Salice Terme. Con l’acquisto del Nuovo Hotel e dello storico stabilimento termale Caputi – che è anche presidente di Federterme – ha messo assieme i tasselli di quello che potrebbe presto diventare il principale polo del benessere d’Italia. Archiviato il vecchio termalismo sociale, basato sulle convenzioni con enti pubblici come Poste e Ferrovie – che garantivano centinaia di migliaia di clienti l’anno alle terme di tutta Italia, grazie alla diaria che copriva buona parte dei costi di soggiorno – i nuovi modelli di business per le attività termali devono mettere in gioco funzioni diverse da quella puramente curativa. La sfida per il rilancio delle Terme di Salice da parte di Caputi – conosciuto come uno dei maggiori protagonisti della finanza immobiliare italiana –  non può che partire da qui.

Continua a leggere

FATTI

La doppia fregatura degli insetti a tavola

Pubblicato

il

Foto in primo piano di Simon da Pixabay

Gli insetti rischiano di togliere spazio ai campioni del made in Italy a tavola. E costano cari come il fuoco.

La Commissione europea ha dato il via libera alla commercializzazione delle larve essiccate di tenebrione mugnaio, la tarma della farina.  Il comitato sulle piante, animali, cibo e mangimi, composto da rappresentanti degli Stati membri e della Commissione, ha annunciato il disco verde  all’atto giuridico che autorizza l’immissione sul mercato delle larve di Tenebrio molitor – questo il nome scientifico – per l’alimentazione umana. In realtà si trovano in commercio da alcuni anni, assieme a grilli, scorpioni e perfino tarantole e sono facilmente acquistabili sul web. Ora rischiamo di trovarli perfino sui banconi del supermercato.

In realtà manca ancora l’ultimo passaggio. La Commissione Ue deve emanare un atto attuativo, in pratica un decreto, che ne disciplini allevamento, lavorazione, confezionamento e vendita. Ma è questione di poco tempo anche se per l’Europa la carica degli insetti commestibili  parte da lontano, precisamente dal 1997, quando Bruxelles approvò il regolamento 258 sui novel food.

La nuova norma Ue abrogherà pure la circolare emanata nel 2018 dall’allora ministro della Salute Beatrice Lorenzin che bloccò la commercializzazione degli esapodi in Italia, proprio in attesa di specifiche norme europee (qui il link all’articolo).

L’EQUIVOCO DELLA FAO

Secondo la Fao, come ricorda la Commissione, l’uso degli insetti come alimento per l’uomo «è particolarmente rilevante nel XXI secolo» a causa del «costo crescente delle proteine animali, dell’insicurezza alimentare, della crescita demografica e della crescente domanda di proteine da parte delle classi medie». Tutti argomenti condivisibili sulla carta, ma che in realtà nascondono equivoci ed errori di valutazione. Intanto il costo delle proteine animali non è aumentato ma è sceso negli ultimi 50 anni. Inoltre quasi tutti i Paesi europei, per lo meno i maggiori, sono alle prese con problemi di denatalità. E gli esperti prevedono per il 2021 un vero crollo demografico in quasi tutta Europa. Dunque i motivi secondo i quali per la Fao è giusto mangiare gli insetti da non non sussistono.

Larve di tenebrione

Eppure per la Commissione europea bisogna trovare «soluzioni alternative all’allevamento convenzionale», perché «il consumo di insetti contribuisce positivamente all’ambiente e alla salute» e «agevola il passaggio a diete salutari e sostenibili». Una posizione che non capisco. Nei Paesi dove vermi e cavallette costituiscono da sempre una fonte di cibo, forse sarà anche così. Da noi fatico a immaginare come l’allevamento di tenebrioni possa cambiare la sorte della nostra salute. Eppure in Horizon Europe, il programma per la ricerca destinato a durare fino al 2027, «le proteine basate sugli insetti sono considerate una delle aree chiave di ricerca».

Argomenti, quelli della Ue che non condivido. Mi guardo bene dal portare sulla mia tavola una larva di tenebrione, fresca o essiccata che sia. Intanto perché mi fa ribrezzo. E poi perché la cultura alimentare è anche frutto di scelte politiche. La nostra dieta è quella che ha fatto di noi uno dei popoli più longevi del pianeta. È fatta di tradizioni millenarie che vanno difese e preservate.

IL BORSINO DEGLI ESAPODI

Senza contare che quando arrivano sulle nostre tavole gli insetti costano cari come il fuoco. Fra le tante varietà, i tenebrioni sono quelli che si pagano meno, ma nella migliore delle ipotesi costano 50 euro al chilogrammo. Volendo invece assaggiare dei grilli si può acquistare una busta da 15 grammi di ortotteri cotti e disidratati, ma bisogna spendere 5 euro. Che al chilogrammo fanno oltre 333 euro. Non parliamo delle rarità. Per una tarantola al forno, venduta in scatola, si pagano 7 euro (466 al chilo), mentre due scorpioni neri d’allevamento (3 grammi l’uno) vengono 7,10 euro. Per un chilo di scorpioni ci vogliono 1.183,33 euro. Poco meno del caviale.

Chi volesse «risparmiare» – si fa per dire –  può buttarsi sulla farina di baco da seta che costa «appena» 195 euro al chilogrammo.

  • quanto-costano-gli-insetti-a-tavola
  • quanto-costano-gli-insetti-a-tavola
  • quanto-costano-gli-insetti-a-tavola

 

Foto in primo piano di Simon da Pixabay
Continua a leggere

FATTI

Il boicottaggio dei prodotti tedeschi? Una sciocchezza

Pubblicato

il

Gira vorticosamente su Whatsapp una catena che invita a boicottare i prodotti tedeschi. Il messaggio è scritto maluccio e i contiene parecchie imprecisioni al punto che, prendendo alla lettera le esortazioni dell’autore si rischia di danneggiare anche aziende localizzate in Italia e prodotti che escono dagli impianti situati nel Belpaese dove lavora personale italianissimo.

Ecco il messaggio. Lascio di proposito gli errori di sintassi.

FONDAMENTALE FACCIAMO IL KULO ALLA CULONA MERKEL e ai Crucchi
Considerato che la guerra è ECONOMICA , e Tedeschi e Austriaci non hanno intenzione, di aiutare coi soldi di tutti e cioè con Eurobond, i paesi più colpiti dell’area Euro come SPAGNA FRANCIA, ITALIA ecc. Soldi che servirebbero a curare malati, a comprare farmaci, a pagare medici, infermieri, sussidi , cassa integrazione, contributi ad aziende e lavoratori, ed attività commerciali oggi chiuse , e ogni misura di sostegno all’economia del nostro paese.
Visto che andiamo tutti a far la spesa, VI IMPLORIAMO di far crollare il fatturato delle aziende tedesche e austriache, i vantaggi saranno enormi. Il primo è per l’occupazione italiana, in secondoluogo le aziende italiane pagano tasse in Italia, molte multinazionali delocalizzano e non producono nulla in Italia, ma inviano solo i loro prodotti al nostro mercato, cioè non producono posti di lavoro in Italia.
Altre tramite un gioco complicato ma legale, pagano poche tasse, avendo sede ad Amsterdam o Paesi Bassi. Se le aziende tedesche che hanno dipendenti qui in Italia crollano, altre aziende italiane o di altri paesi assumeranno personale in Italia, quindi tranquilli. La Germania ha avuto un SURPLUS commerciale da quando è entrata in Europa, vantaggio riconosciuto da tutti gli economisti del mondo. Questo anche perchè la gran parte dei nostri politici son tutti senza palle. I vantaggi per le aziende NON GERMANICHE sarebbero enormi, Vi chiediamo di inoltrarlo a 20 persone, di cui 2 almeno fuori dalla vostra città, se ognuno di voi ci riesce in 5 minuti siamo a 400, in un ora a 8.000 persone circa, in un giorno raggiungiamo 192.000 contatti, quindi i numeri si fanno importanti. Massacriamo la Germania, senza missili, senza armi, ma con l’arma che è caratteristica di noi italiani e cioè l’intelligenza. vedi MEUCCI (inventore telefono), E.FERMI, Cristoforo Colombo, Leonardo da Vinci
BOICOTTIAMO TUTTI I PRODOTTI ELENCATI:
COLOSSI GRANDE DISTRIBUZIONE tedeschi:
ALDI SUPERMERCATI, LIDL, PENNY Market e DESPAR
Prodotti: BALSEN biscotti, YOGURT MULLER, KNORR SUGHI, HARIBO caramelle, Birra Paulaner, Edelweiss, Goldenbrau, Gosser (BAVARIA e Heineken olandesi) Red bull bevanda austriaca, Henkel group tedesca che detiene: DIXAN, BIO PRESTO, Perlana, VERNEL, PERSIL, Pril per lavastoviglie, Nielsen sapone piatti. GLISS per capelli, antica Erboristeria che è tutto meno che italiana, Breff detergenti prodotti cas,a VAPE antizanzare, HERTZ autonoleggio Ravensburger giocattoli, colla LOCTITE e Pritt, Schwarkopf shampoo e Neutromed saponi, Continental pneumatici, ROWENTA E VORKERK elettrodomestici, Marchio Bosch e Aeg Cucine Materiale per bagno edilizia Duravit, Grohe e Knauf, Villeroy & Bosch Wurth viti Junkers e Vaillant caldaie, Telefunken televisori, Osram e SIEMENS, colossi illuminazione, PUMA e ADIDAS, ESCADA e MONTBLANC, REUSCH e ULHSPORT abbigliamento sport e neve. LANGE & SONHE orologi, KTM moto Swaroski gioielli, SCI ATOMIC e il marchio HEAD Deustche bank -chi tiene i soldi lì ricordiamo che la banca ha varato 20.00 licenziamenti in tutto il mondo, in quanto attraversa una grave crisi di liquidità. Decisamente più sicuro tenere risparmi nelle grosse banche italiane.
Sui farmaci , si parla di salute e quindi siamo persone perbene e non ci permettiamo di toccare la Bayer ma se comprate un’aspirina in meno è meglio, per tutti..
DIFENDETE I LAVORATORI E LE AZIENDE DEL VOSTRO PAESE
Non ci rivolgiamo a tutti ma solo AGLI ITALIANI CHE VOGLIONO DIFENDERE IL PROPRIO PAESE, OGGI COME NON MAI
Buona Spesa a tutti E Forza Italia SEMPRE

In realtà non tutti i marchi elencati sono tedeschi e più che danneggiare i crucchi si rischia di fare dei danni seri alla nostra economia. Parto dall’inizio e ne cito soltanto alcuni perché se facessi l’elenco delle attività presenti da noi sarebbe lunghissimo.

Despar è un’insegna della grande distribuzione olandese e non tedesca, proprietarie della cooperativa Spar, con sede ad Amsterdam. Nel nostro Paese ha stipulato accordi di licenza con società italiane. Smettendo di acquistare nella rete Despar si buttano su una strada migliaia di nostri connazionali che lavorano nei punti vendita localizzati nella Penisola.

La birra Heineken è olandese ma quella che troviamo sugli scaffali dei nostri supermercati è interamente prodotta in Italia dove la multinazionale di Amsterdam ha ben quattro birrifici in cui lavorano quasi 2mila persone: Comun Nuovo (Bergamo), Assemini (Cagliari), Massafra (Taranto), Pollein (Aosta). Ma c’è di più. Heineken possiede alcuni fra i nostri maggiori marchi birrari: Moretti, Baffo d’Oro, Sans Souci, Dreher, Ichnusa, Messina, Von Wunster, Prinz e Cervisia. Tutti prodotti confezionati nello stivale. Come la mettiamo con queste etichette?

Henkel è in effetti tedesca, di Dusseldorf, e sforna prodotti per la pulizia della casa, per l’igiene personale, oltre ai collanti Loctite, Pritt, Super Attak e Pattex ma è attiva nel da noi con 5 stabilimenti da cui escono, fra l’altro, Dixan, Bio Presto, Perlana, Nelsen (non Nielsen come scritto nel messaggio) e Vernel. Nel 2016 i lavoratori italiani del gruppo tedesco erano 1.100.

Altro svarione grossolano riguarda i televisori a marchio Telefunken che dal 2006 sono prodotti su licenza dalla turca Profilo Telra Elektronik e distribuiti da noi da un’altra società turca, la Vestel. In questo caso la Germania e i tedeschi non c’entrano nulla

Fra l’altro non si capisce perché dalla lista nera siano esclusi i marchi dell’industria automobilistica tedesca: Mercedes, Volkswagen, Audi e Opel. Forse perché l’autore della campagna di boicottaggio gira su una vettura di queste marche? Chissà…

In ogni caso, prima di lanciare questi tormentoni, bisognerebbe chiedersi quali possano essere i danni prodotti. Ed è puerile ritenere che «se le aziende tedesche che hanno dipendenti qui in Italia crollano, altre aziende italiane o di altri paesi assumeranno personale in Italia», come scrive l’anonimo autore del messaggio. Se chiudono gli impianti localizzati nel nostro Paese se ne vanno a casa migliaia di lavoratori. Punto.

Fra l’altro chi ha lanciato il boicottaggio ignora del tutto che Germania e Olanda sono fra i maggiori esportatori nella Penisola di materie prime alimentari che la nostra industria di trasformazione lavora e vende con marchi italianissimi.

Forse, anziché lanciare anatemi sarebbe meglio invitare i nostri consumatori a cercare i prodotti 100% Italia. È più facile, si è sicuri di privilegiare il lavoro e la creazione di ricchezza sul suolo nazionale e non si rischiano gravi danni collaterali. Ma visto il livello palesato dall’autore del messaggio, questo meccanismo gli sfugge sicuramente.

Continua a leggere

In Evidenza