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Le 10 bufale più clamorose sull’Expo. Smontate una per una

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L’Expo non è di destra né di sinistra, Lo dimostra indirettamente il partito di quanti partecipano a un gioco che va molto di moda. Intitolato «Vi spiego io l’Expo flop». Il Decumano è pieno di gente al punto da faticare ad attraversarlo? È un falso fotografico. I biglietti serali a data chiusa sono «full» per diversi giorni? Balle, inventate da Sala (Giuseppe Sala, il commissario unico di Expo). Le code di ore ai padiglioni? Create ad arte dagli staff, per dare l’impressione che ci sia tanta gente. A queste balle è inutile tentar di dare una risposta. Ma ce ne sono altre, ben più argomentate, che al contrario meritano attenzione. Parto dall’ultima bufala in ordine di tempo, quella degli 88 milioni a carico dell’Inps per pagare l’ingresso ai pensionati.

1. L’ingresso gratis ai pensionati ci costa 88 milioni di euro

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Foto di Alessandro Pietra – http://alessandrofoto.weebly.com

Il 6 agosto un quotidiano nazionale titolava: «Due milioni di pensionati per nascondere l’Expo flop». Aggiungendo: «L’operazione costa 88 milioni di euro, ma l’Inps smentisce l’esborso…». La tesi è grottesca. Siccome l’Expo ha deciso di aprire le porte a 2,2 milioni di pensionati a basso reddito, ballano 88 milioni di euro. Pari al biglietto intero moltiplicato per i pensionati. Cifra che l’Inps deve coprire. Poco importa che si tratti di ingressi omaggio e che l’Inps non debba pagare nulla perché non esiste alcuna partita contabile da saldare. Secondo l’autore dell’articolo, un’altra perdita la deve sostenere Trenitalia che si è offerta di trasportare all’Expo i vecchietti a metà prezzo. Grande confusione: la metà non incassata dalle Ferrovie non è una perdita perché quello sostenuto da FS per trasportare i pensionati è un costo marginale. Aggiuntivo cioè a quelli d’esercizio. Per l’Expo non c’è neppure il costo marginale. Semmai un mancato ricavo, che però non c’entra nulla con le perdite. Alla fine gli unici a sborsare qualcosa (per il viaggio) sono i vecchietti.

2. Per il turismo l’esposizione è un fallimento. A Milano non si vede nessuno

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Altro argomento ricorrente nei ragionamenti di quanti non perdono l’occasione per demolire l’evento dell’anno è che il flusso di turisti non ne ha risentito se non marginalmente. Nulla di più falso. Il 7 agosto la Camera di commercio di Monza ha diffuso gli ultimi dati sull’impatto dell’Expo nel comparto turistico (ecco la nota).a Miilano le presenze sono cresciute del 32,6%, in Brianza del 18,3 e a venezia, che non è proprio dietro l’angolo rispetto a Rho, del 20,9%. L’effetto più significativo è l’impennata del 32,6% registrata nelle prenotazioni degli alberghi a Milano, legate direttamente all’esposizione universale. E anche i dati sui ricavi sono più che positivi. Nella sola Lombardia l’indotto legato all’Expo, soltanto nel mese di luglio, ammonta a 20 milioni di euro, con il 40,9% delle strutture che dichiara un aumento delle presenze motivato da Expo in media del 32,6% rispetto allo stesso mese 2014. E dati sono equivocabili, eppure l’assenza di turisti è una delle motivazioni più ricorrenti utilizzate dagli expodistruttori per sostenere le loro tesi.

3. La qualità del cibo è pessima

ristoranti-expoL’ultimo in ordine di tempo a stabilire che all’esposizione universale si mangi male è stato lo scrittore Vincenzo Latronico che su Internazionale ha pubblicato una stroncatura della manifestazione (Dietro le esagerazioni di Expo non c’è niente), seconda soltanto a quelle più illustri firmate da Marco Travaglio e Gianni Barbacetto. Scrive Latronico: «Quello che colpisce, alla fiera del cibo, è la pessima qualità del cibo. Non parlo degli chef stellati; quelli ci sono ma costano cari, e dopo aver pagato 34 euro di ingresso non me ne restavano 75 per mangiare allo stand di Identità Golose (nel pomeriggio era disponibile un menù a prezzo più basso, con le preparazioni avanzate dal pranzo, ma a quel punto non avevo più fame). In generale, penso che chi può permettersi di mangiare a questa cifra preferisca farlo in un posto che non sia strapieno di turisti, nel frastuono dei bonghi e con annunci promozionali a tutto volume ogni cinque minuti. Però dove non c’erano le stelle la qualità era molto diversa da quello che si poteva immaginare». Una descrizione grottesca per chi ha frequentato un po’ i locali dell’esposizione universale. Faccio fatica ad esempio a immaginare come si possa essere disturbati dai bonghi o dalla musica al Bibigo (Corea), al ristorante russo o nelle sale accoglienti di Identità Golose.(dove non si cucinano gli avanzi del pasto precedente!). E fatico a immaginare come faccia Latronico a sentenziare che tutti i cibi serviti all’Expo siano di pessima qualità. Ha provato gli oltre 100 fra ristoranti, food corner e chioschi che si incontrano nel quartiere espositivo? In alcuni la qualità dei piatti è francamente scarsa. In altri mi è capitato di pranzare magnificamente. Stento a credere comunque che nel corso di una visita durata un giorno Latronico abbia potuto provarne più di quattro o cinque. Però secondo lui si mangia male ovunque.

4. Per mangiare una famiglia deve spendere una fortuna

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L’Expo è il posto più caro d’Italia. Altra bufala che mi sono sentito raccontare da amici e colleghi che neppure avevano messo piede all’esposizione universale. In questo caso, come negli altri, i mass media contribuiscono ad amplificare quel che non è. Un caso per tutti: la puntata della trasmissione La Gabbia andata in onda appena dopo l’inaugurazione. Dopo aver scelto i locali più cari, il servizio (ecco il link su YouTube) conclude che per mangiare all’Expo una famiglia debba spendere 500 euro. Forse, pranzando al ristorante giapponese e scegliendo solo i piatti più costosi, si arriva a questa cifra. In tutti gli altri casi il conto è di molto inferiore. Basta consultare il sito Zomato, la risorsa web più completa in tema, per verificare che i prezzi nei ristoranti (escludendo bar e food corner) vanno in media dai 30 agli 80 euro a coperto. Molto simili a quelli praticati dai locali milanesi, escluso il centro storico, dove i conti sono ben più salati.

5. L’Expo è soltanto una Gardaland dell’alimentazione

Il padiglione di Israele

Il padiglione di Israele con il campo verticale, una delle attrazioni dell’esposizione universale

Qui le fonti sono così numerose che fatico a sceglierne una. A rotazione hanno scritto un po’ tutti i giornali che l’Expo sia la Gardaland della tavola. Peccato che non sia assolutamente vero. C’è da perdersi tra i padiglioni e i cluster se si volesse approfondire i grandi temi dell’alimentazione. Personalmente raccomando la visita a quattro padiglioni – Irlanda, Israele, Germania, Corea – un’area tematica, vale a dire il Future Food District e un cluster, quello del caffè. Gli irlandesi raccontano il loro progetto Origin Green per le filiere agroalimentari trasparenti, certificate e socialmente sostenibili. Gli israeliani come hanno trasformato lande desertiche in orti e frutteti e mettono a disposizione le tecnologie per farlo a tutti i Paesi che le chiedessero. Il padiglione tedesco è stato una sorpresa: mai mi sarei aspettato di sentir parlare a casa della Merkel di biodiversità e etichette d’origine; eppure è successo. I coreani, infine, con metafore lievi ma incisive descrivono la loro versione dello slow food in salsa orientale, vecchio di almeno un millennio.Al supermercato del futuro, la Coop ha avuto il coraggio di parlare di origine delle materie prime alimentari e di esplicitarla con le «etichette aumentate». Il cluster del caffè è divertente e istruttivo al tempo stesso. Oltre a confrontarsi con culture gastronomiche diverse dalla nostra, in cui la bevanda nera e bollente assume contenuti inattesi, si può capire cosa significhi per i produttori africani e sudamericani. Poi ci sono Slow Food, Cascina Triulza, il padiglione «No farmers no party» della Coldiretti e «Cibus è Italia» di Federalimentare. Un tour che può richiedere ben più di una giornata.

6. La presenza di Coca Cola, McDonald’s e Ferrero, dimostra che contano soltanto i soldi

L'interno del padiglione Coca Cola

L’interno del padiglione Coca Cola

Le multinazionali hanno approfittato dell’esposizione universale per realizzare operazioni di green washing in grande stile. Questo è difficile negarlo. E magari si sono dimenticate di raccontare le iniziative più «spendibili», come nel caso della Ferrero che ha concluso un accordo con i produttori di nocciole della Sicilia, rendendo un po’ più sostenibile la Nutella. Intesa di cui però non si trova traccia nel padiglione della dinasty dolciaria piemontese. Non di meno queste aziende sono parte integrante dell’universo alimentare. Che senso ha escluderle. In base a qual principio Sala avrebbe dovuto dire «no»? Perché non sono politically correct? E poi, francamente, sono divertenti per adulti e ragazzi, come nel caso della Coca Cola, offrono più d’un momento di svago ai visitatori più piccoli (Ferrero). Oppure, parlo di McDonald’s, sono uno fast food come se ne trovano ai quattro angoli d’Italia. Io non li frequento e mi guardo bene dall’andarci all’Expo. Ma esistono e farne delle vittime di un proibizionismo alimentar-ideologico, avrebbe causato più danni che benefici.

7. I cluster che raccolgono i Paesi meno avanzati sono un flop

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I cluster erano una delle scommesse dell’organizzazione italiana di Expo. L’idea di partenza era dare l’opportunità di essere presenti anche ai Paesi meno avanzati. Così è stato. Ciascun Paese, naturalmente, partecipa come può, stante le limitazioni tematiche. Il cluster del caffè, ad esempio. è complessivamente interessante e ben riuscito, grazie anche all’intervento provvidenziale di Illy. Quello dei tuberi molto meno. Ma questa situazione riflette soprattutto la realtà e le differenze, culturali più che economiche, che separano i Paesi in via di sviluppo. Etichettare i cluster come un flop è ingeneroso, soprattutto per quegli Stati che hanno fatto uno sforzo notevole per coprire la loro installazione per i sei mesi di durata dell’Expo.Certo, in taluni stand si parla poco di alimentazione e i cluster dedicati alle isole e alle zone aride sono molto (troppo) decentrati rispetto al Decumano per intercettare il grande flusso dei visitatori. Ma i contenuti riflettono la capacità dei singoli Paesi di concepire  una presenza adeguata all’Expo. Il mondo è bello proprio per queste differenze. E non escludo che i responsabili di quei padiglioni apprendano qualcosa proprio dal confronto tra la loro presenza e quella degli altri Paesi. Che poi è uno degli obiettivi dell’esposizione.

8. I lavoratori vengono sfruttati. Sono braccia a perdere

Foto da volunteer.expo.org

Foto da volunteer.expo.org

Quello del personale sfruttato è stato uno dei cavalli di battaglia degli expodistruttori. Prima con i volontari, poi con i lavoratori temporanei, inviati in missione all’Expo dalle più importanti agenzie private per il lavoro: c’è mancato poco che scattasse l’accusa di caporalato. Ed è passato quasi sotto silenzio l’accordo sottoscritto tra Gi Group e i sindacati di categoria con un pacchetto di interventi per ricollocare 400 somministrati alla fine dell’esposizione universale. Ho l’impressione che l’importante non fosse tanto la sorte di queste persone, quanto la possibilità di usarle contro Sala e contro l’Expo. Nessuno, fra quanti hanno puntato il dito accusatore, si è preoccupato di chiedere il parere dei diretti interessati. A leggere i post che pubblicano sui propri profili Facebook non sembra proprio che lamentino di essere stati sfruttati. Anzi: manifestano una grande nostalgia dell’Expo. Perché non far parlare loro?

9. L’esposizione universale è un’orgia di materiali sprecati

La seconda vita del padiglione di Monaco sarà nel Burkina Faso (da www.monacopavilion.com)

La seconda vita del padiglione di Monaco sarà nel Burkina Faso (da www.monacopavilion.com)

A esposizione universale aperta da pochi giorni – erano i primi di maggio – arrivava la bocciatura inappellabile da parte della stampa estera. I più negativi, come sempre quando un evento si svolge in Italia, erano i giornali tedeschi. Scriveva sull’Expo la Frankfurter Allgemeine Zeitung: «È un’orgia di spreco di materiali organizzata in dimensione epocale, nella quale le piantine del riso, le macchine per l’agricoltura, i chicchi del caffè vengono esposti come i pezzi migliori della fiera in una montagna di acciaio drammaticamente modellato e parametricamente distorto, di legno e di vetro ricoperto di plastica». E ancora: «Le organizzazioni e le aziende di 140 Paesi hanno costruito padiglioni che costano ognuno tra i dieci e i trenta milioni di euro. E in gran parte saranno demoliti dopo il 31 ottobre». La prima parte, quella sulle piantine di riso e i chicchi di caffè, si commenta da sola. Chiunque abbia messo piede all’Expo a rileggere le sciocchezze della Faz non può che farsi una sonora risata. La chiusa è irrevocabilmente falsa: a meno che non intercorra un accordo per il loro utilizzo il loco, i padiglioni dovranno essere smontati a esposizione conclusa. È una regola introdotta dal Bie, il Bureau international del expositions proprietario del marchio Expo, per evitare che a manifestazione conclusa rimanga la classica cattedrale nel deserto. La stragrande maggioranza delle installazioni verranno smontare per essere ricostruite nei Paesi di appartenenza o in altri luoghi, assolvendo a funzioni utili alle comunità che li ospiteranno. Il padiglione Coca Cola, ad esempio, è destinato a Milano città, e si trasformerà in un palazzetto dello sport. Quello di Monaco, invece, prenderà la via dell’Africa, destinazione Burkina Faso, dove sarà adibito a centro di formazione per il primo soccorso.Ad eccezione dei padiglioni che rimarranno nell’attuale quartiere espositivo e si trasformeranno in qualcosa di diverso, gli altri verranno smontati (non demoliti) e rimontati in altro luogo.

10. All’Expo non va nessuno. I padiglioni sono deserti

In coda ai tornelli di Porta Triulza, l'ingresso ovest dell'esposizione universale

In coda ai tornelli di Porta Triulza, l’ingresso ovest dell’esposizione universale

L’Expo deserta è sicuramente la madre di tutte le bufale. La prima e l’ultima. Visto che l’evento di Rho è preda delle multinazionali, si mangia malissimo e a prezzi esorbitanti, visto che è il regno dello spreco e dello sfruttamento sistematico delle persone, e non ha portato un turista in più a Milano, non può che essere privo di visitatori. Una balla che mi sono sentito ripetere infinite volte da amici, parenti, conoscenti e perfino colleghi. Hai voglia a spiegare che non è così, che in certi giorni si fatica perfino a camminare tanta è la ressa e che per mangiare in certi ristoranti devi prenotarti con settimane d’anticipo. Proprio su questo aspetto ho avuto la conferma di quanto sia pericoloso il web come amplificatore di leggende metropolitane. In una delle tante discussioni sui social network a cui ho partecipato mi sono sentito dire: «Prova a scrivere su Google Expo flop… Vedrai quanti risultati ti darà il motore di ricerca…». E in effetti il risultato è impressionante: 646.000 pagine web. Ma la stringa di significato opposto, vale a dire «Expo successo», ottiene un numero di risultati quasi otto volte superiore, ben 4.430.000. Solo che a nessuno degli expottimisti viene in mente di utilizzarlo come prova per dimostrare la riuscita della manifestazione. Bastano i numeri: 10 milioni di biglietti fatturati ed emessi al 31 luglio, confermati anche dai dati sugli accessi fisici ai tornelli nella prima settimana di agosto, 100mila al giorno.

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Le Terme di Salice a Massimo Caputi

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Massimo_caputi_Terme_di_Salice

Massimo Caputi, classe 1952, ingegnere civile, è il nuovo proprietario delle Terme di Salice, che ha rilevato all’asta martedì 13 luglio presentando un’offerta di un milione e 570mila euro. Si chiude così la vicenda del crac da 10 milioni di euro che portò alla dichiarazione di fallimento dello storico stabilimento termale da parte del Tribunale di Pavia tre anni or sono.
Pochi giorni fa Caputi si è aggiudicato il Nuovo Hotel Terme per una cifra di poco superiore ai 900mila euro.

Ma chi è il nuovo padrone delle Terme di Salice? Dire che possiede quelle di Saturnia – vera e propria meraviglia del benessere – e che recentemente ha rilevato dal Montepaschi il 47% di quelle di Chianciano è riduttivo. Senza dubbio Caputi, abruzzese di Chieti, ha competenza e capacità in abbondanza per rilanciare in chiave moderna il termalismo, dato per morto frettolosamente, assieme ai vecchi frequentatori degli stabilimenti termali. Quelli che li affollavano fino agli anni Ottanta, sottoponendosi a inalazioni, humages, nebulizzazioni e fanghi. Già, perché Caputi è un capitano di lungo corso dell’imprenditoria italiana. Negli ultimi trent’anni è transitato in molte delle aziende assurte a vario titolo agli onori delle cronache. Economiche e non solo.

DALLE STAZIONI ALLE BANCHE

Amministratore delegato di Grandi Stazioni, gruppo Ferrovie dello Stato, dal 1996 al 2002, dall’aprile dell’anno successivo al maggio 2006 è consigliere d’amministrazione della Banca Montepaschi di Siena. Nel frattempo – precisamente nel febbraio 2002 – assume la carica di amministratore delegato di Sviluppo Italia (ora Invitalia). Carica che mantiene fino all’ottobre 2005.

Massimo Caputi

Massimo Caputi, classe 1952, abruzzese di Chieti, è uno dei protagonisti indiscussi della finanza immobiliare italiana

Nel dicembre 2008 viene nominato vicepresidente del consiglio di amministrazione di Banca Antonveneta, entrata a far parte, proprio quell’anno, del gruppo Montepaschi, prima di essere incorporata dall’istituto senese cinque anni più tardi.
Dal maggio 2013 all’ottobre 2015 è vicepresidente esecutivo della Prelios, la ex Pirelli Real Estate. La salva da una fine ingloriosa, facendone una società modello.

IL SALVATAGGIO DELLA FIMIT

Consigliere di amministrazione della Luiss (2004-2007) e della Marzotto (2006-2007), qualche anno prima, per la precisione nell’agosto 2000 Caputi arriva alla Fimit, società di gestione del risparmio del Mediocredito Centrale e la salva dal disastro, raddrizzandone le attività e i conti. Vi resta fino al 2007 per poi rientrarvi l’anno successivo e guidarla fino al 2011. Nel 2001, da ceo di Fimit, lancia il Fondo Alpha, primo fondo immobiliare quotato in Borsa.

Dal 2017 Caputi è presidente delle Terme di Saturnia, acquisite da Feidos, società di specialisti di cui è il maggiore azionista, assieme al fondo speculativo americano York Capital. A febbraio 2021 rileva il pacchetto di maggioranza delle Terme di Chianciano, dove sta mettendo mano al portafoglio per un rilancio indispensabile.

IL POLO DEL BENESSERE

Ora Salice Terme. Con l’acquisto del Nuovo Hotel e dello storico stabilimento termale Caputi – che è anche presidente di Federterme – ha messo assieme i tasselli di quello che potrebbe presto diventare il principale polo del benessere d’Italia. Archiviato il vecchio termalismo sociale, basato sulle convenzioni con enti pubblici come Poste e Ferrovie – che garantivano centinaia di migliaia di clienti l’anno alle terme di tutta Italia, grazie alla diaria che copriva buona parte dei costi di soggiorno – i nuovi modelli di business per le attività termali devono mettere in gioco funzioni diverse da quella puramente curativa. La sfida per il rilancio delle Terme di Salice da parte di Caputi – conosciuto come uno dei maggiori protagonisti della finanza immobiliare italiana –  non può che partire da qui.

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La doppia fregatura degli insetti a tavola

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Foto in primo piano di Simon da Pixabay

Gli insetti rischiano di togliere spazio ai campioni del made in Italy a tavola. E costano cari come il fuoco.

La Commissione europea ha dato il via libera alla commercializzazione delle larve essiccate di tenebrione mugnaio, la tarma della farina.  Il comitato sulle piante, animali, cibo e mangimi, composto da rappresentanti degli Stati membri e della Commissione, ha annunciato il disco verde  all’atto giuridico che autorizza l’immissione sul mercato delle larve di Tenebrio molitor – questo il nome scientifico – per l’alimentazione umana. In realtà si trovano in commercio da alcuni anni, assieme a grilli, scorpioni e perfino tarantole e sono facilmente acquistabili sul web. Ora rischiamo di trovarli perfino sui banconi del supermercato.

In realtà manca ancora l’ultimo passaggio. La Commissione Ue deve emanare un atto attuativo, in pratica un decreto, che ne disciplini allevamento, lavorazione, confezionamento e vendita. Ma è questione di poco tempo anche se per l’Europa la carica degli insetti commestibili  parte da lontano, precisamente dal 1997, quando Bruxelles approvò il regolamento 258 sui novel food.

La nuova norma Ue abrogherà pure la circolare emanata nel 2018 dall’allora ministro della Salute Beatrice Lorenzin che bloccò la commercializzazione degli esapodi in Italia, proprio in attesa di specifiche norme europee (qui il link all’articolo).

L’EQUIVOCO DELLA FAO

Secondo la Fao, come ricorda la Commissione, l’uso degli insetti come alimento per l’uomo «è particolarmente rilevante nel XXI secolo» a causa del «costo crescente delle proteine animali, dell’insicurezza alimentare, della crescita demografica e della crescente domanda di proteine da parte delle classi medie». Tutti argomenti condivisibili sulla carta, ma che in realtà nascondono equivoci ed errori di valutazione. Intanto il costo delle proteine animali non è aumentato ma è sceso negli ultimi 50 anni. Inoltre quasi tutti i Paesi europei, per lo meno i maggiori, sono alle prese con problemi di denatalità. E gli esperti prevedono per il 2021 un vero crollo demografico in quasi tutta Europa. Dunque i motivi secondo i quali per la Fao è giusto mangiare gli insetti da non non sussistono.

Larve di tenebrione

Eppure per la Commissione europea bisogna trovare «soluzioni alternative all’allevamento convenzionale», perché «il consumo di insetti contribuisce positivamente all’ambiente e alla salute» e «agevola il passaggio a diete salutari e sostenibili». Una posizione che non capisco. Nei Paesi dove vermi e cavallette costituiscono da sempre una fonte di cibo, forse sarà anche così. Da noi fatico a immaginare come l’allevamento di tenebrioni possa cambiare la sorte della nostra salute. Eppure in Horizon Europe, il programma per la ricerca destinato a durare fino al 2027, «le proteine basate sugli insetti sono considerate una delle aree chiave di ricerca».

Argomenti, quelli della Ue che non condivido. Mi guardo bene dal portare sulla mia tavola una larva di tenebrione, fresca o essiccata che sia. Intanto perché mi fa ribrezzo. E poi perché la cultura alimentare è anche frutto di scelte politiche. La nostra dieta è quella che ha fatto di noi uno dei popoli più longevi del pianeta. È fatta di tradizioni millenarie che vanno difese e preservate.

IL BORSINO DEGLI ESAPODI

Senza contare che quando arrivano sulle nostre tavole gli insetti costano cari come il fuoco. Fra le tante varietà, i tenebrioni sono quelli che si pagano meno, ma nella migliore delle ipotesi costano 50 euro al chilogrammo. Volendo invece assaggiare dei grilli si può acquistare una busta da 15 grammi di ortotteri cotti e disidratati, ma bisogna spendere 5 euro. Che al chilogrammo fanno oltre 333 euro. Non parliamo delle rarità. Per una tarantola al forno, venduta in scatola, si pagano 7 euro (466 al chilo), mentre due scorpioni neri d’allevamento (3 grammi l’uno) vengono 7,10 euro. Per un chilo di scorpioni ci vogliono 1.183,33 euro. Poco meno del caviale.

Chi volesse «risparmiare» – si fa per dire –  può buttarsi sulla farina di baco da seta che costa «appena» 195 euro al chilogrammo.

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Foto in primo piano di Simon da Pixabay
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Il boicottaggio dei prodotti tedeschi? Una sciocchezza

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Gira vorticosamente su Whatsapp una catena che invita a boicottare i prodotti tedeschi. Il messaggio è scritto maluccio e i contiene parecchie imprecisioni al punto che, prendendo alla lettera le esortazioni dell’autore si rischia di danneggiare anche aziende localizzate in Italia e prodotti che escono dagli impianti situati nel Belpaese dove lavora personale italianissimo.

Ecco il messaggio. Lascio di proposito gli errori di sintassi.

FONDAMENTALE FACCIAMO IL KULO ALLA CULONA MERKEL e ai Crucchi
Considerato che la guerra è ECONOMICA , e Tedeschi e Austriaci non hanno intenzione, di aiutare coi soldi di tutti e cioè con Eurobond, i paesi più colpiti dell’area Euro come SPAGNA FRANCIA, ITALIA ecc. Soldi che servirebbero a curare malati, a comprare farmaci, a pagare medici, infermieri, sussidi , cassa integrazione, contributi ad aziende e lavoratori, ed attività commerciali oggi chiuse , e ogni misura di sostegno all’economia del nostro paese.
Visto che andiamo tutti a far la spesa, VI IMPLORIAMO di far crollare il fatturato delle aziende tedesche e austriache, i vantaggi saranno enormi. Il primo è per l’occupazione italiana, in secondoluogo le aziende italiane pagano tasse in Italia, molte multinazionali delocalizzano e non producono nulla in Italia, ma inviano solo i loro prodotti al nostro mercato, cioè non producono posti di lavoro in Italia.
Altre tramite un gioco complicato ma legale, pagano poche tasse, avendo sede ad Amsterdam o Paesi Bassi. Se le aziende tedesche che hanno dipendenti qui in Italia crollano, altre aziende italiane o di altri paesi assumeranno personale in Italia, quindi tranquilli. La Germania ha avuto un SURPLUS commerciale da quando è entrata in Europa, vantaggio riconosciuto da tutti gli economisti del mondo. Questo anche perchè la gran parte dei nostri politici son tutti senza palle. I vantaggi per le aziende NON GERMANICHE sarebbero enormi, Vi chiediamo di inoltrarlo a 20 persone, di cui 2 almeno fuori dalla vostra città, se ognuno di voi ci riesce in 5 minuti siamo a 400, in un ora a 8.000 persone circa, in un giorno raggiungiamo 192.000 contatti, quindi i numeri si fanno importanti. Massacriamo la Germania, senza missili, senza armi, ma con l’arma che è caratteristica di noi italiani e cioè l’intelligenza. vedi MEUCCI (inventore telefono), E.FERMI, Cristoforo Colombo, Leonardo da Vinci
BOICOTTIAMO TUTTI I PRODOTTI ELENCATI:
COLOSSI GRANDE DISTRIBUZIONE tedeschi:
ALDI SUPERMERCATI, LIDL, PENNY Market e DESPAR
Prodotti: BALSEN biscotti, YOGURT MULLER, KNORR SUGHI, HARIBO caramelle, Birra Paulaner, Edelweiss, Goldenbrau, Gosser (BAVARIA e Heineken olandesi) Red bull bevanda austriaca, Henkel group tedesca che detiene: DIXAN, BIO PRESTO, Perlana, VERNEL, PERSIL, Pril per lavastoviglie, Nielsen sapone piatti. GLISS per capelli, antica Erboristeria che è tutto meno che italiana, Breff detergenti prodotti cas,a VAPE antizanzare, HERTZ autonoleggio Ravensburger giocattoli, colla LOCTITE e Pritt, Schwarkopf shampoo e Neutromed saponi, Continental pneumatici, ROWENTA E VORKERK elettrodomestici, Marchio Bosch e Aeg Cucine Materiale per bagno edilizia Duravit, Grohe e Knauf, Villeroy & Bosch Wurth viti Junkers e Vaillant caldaie, Telefunken televisori, Osram e SIEMENS, colossi illuminazione, PUMA e ADIDAS, ESCADA e MONTBLANC, REUSCH e ULHSPORT abbigliamento sport e neve. LANGE & SONHE orologi, KTM moto Swaroski gioielli, SCI ATOMIC e il marchio HEAD Deustche bank -chi tiene i soldi lì ricordiamo che la banca ha varato 20.00 licenziamenti in tutto il mondo, in quanto attraversa una grave crisi di liquidità. Decisamente più sicuro tenere risparmi nelle grosse banche italiane.
Sui farmaci , si parla di salute e quindi siamo persone perbene e non ci permettiamo di toccare la Bayer ma se comprate un’aspirina in meno è meglio, per tutti..
DIFENDETE I LAVORATORI E LE AZIENDE DEL VOSTRO PAESE
Non ci rivolgiamo a tutti ma solo AGLI ITALIANI CHE VOGLIONO DIFENDERE IL PROPRIO PAESE, OGGI COME NON MAI
Buona Spesa a tutti E Forza Italia SEMPRE

In realtà non tutti i marchi elencati sono tedeschi e più che danneggiare i crucchi si rischia di fare dei danni seri alla nostra economia. Parto dall’inizio e ne cito soltanto alcuni perché se facessi l’elenco delle attività presenti da noi sarebbe lunghissimo.

Despar è un’insegna della grande distribuzione olandese e non tedesca, proprietarie della cooperativa Spar, con sede ad Amsterdam. Nel nostro Paese ha stipulato accordi di licenza con società italiane. Smettendo di acquistare nella rete Despar si buttano su una strada migliaia di nostri connazionali che lavorano nei punti vendita localizzati nella Penisola.

La birra Heineken è olandese ma quella che troviamo sugli scaffali dei nostri supermercati è interamente prodotta in Italia dove la multinazionale di Amsterdam ha ben quattro birrifici in cui lavorano quasi 2mila persone: Comun Nuovo (Bergamo), Assemini (Cagliari), Massafra (Taranto), Pollein (Aosta). Ma c’è di più. Heineken possiede alcuni fra i nostri maggiori marchi birrari: Moretti, Baffo d’Oro, Sans Souci, Dreher, Ichnusa, Messina, Von Wunster, Prinz e Cervisia. Tutti prodotti confezionati nello stivale. Come la mettiamo con queste etichette?

Henkel è in effetti tedesca, di Dusseldorf, e sforna prodotti per la pulizia della casa, per l’igiene personale, oltre ai collanti Loctite, Pritt, Super Attak e Pattex ma è attiva nel da noi con 5 stabilimenti da cui escono, fra l’altro, Dixan, Bio Presto, Perlana, Nelsen (non Nielsen come scritto nel messaggio) e Vernel. Nel 2016 i lavoratori italiani del gruppo tedesco erano 1.100.

Altro svarione grossolano riguarda i televisori a marchio Telefunken che dal 2006 sono prodotti su licenza dalla turca Profilo Telra Elektronik e distribuiti da noi da un’altra società turca, la Vestel. In questo caso la Germania e i tedeschi non c’entrano nulla

Fra l’altro non si capisce perché dalla lista nera siano esclusi i marchi dell’industria automobilistica tedesca: Mercedes, Volkswagen, Audi e Opel. Forse perché l’autore della campagna di boicottaggio gira su una vettura di queste marche? Chissà…

In ogni caso, prima di lanciare questi tormentoni, bisognerebbe chiedersi quali possano essere i danni prodotti. Ed è puerile ritenere che «se le aziende tedesche che hanno dipendenti qui in Italia crollano, altre aziende italiane o di altri paesi assumeranno personale in Italia», come scrive l’anonimo autore del messaggio. Se chiudono gli impianti localizzati nel nostro Paese se ne vanno a casa migliaia di lavoratori. Punto.

Fra l’altro chi ha lanciato il boicottaggio ignora del tutto che Germania e Olanda sono fra i maggiori esportatori nella Penisola di materie prime alimentari che la nostra industria di trasformazione lavora e vende con marchi italianissimi.

Forse, anziché lanciare anatemi sarebbe meglio invitare i nostri consumatori a cercare i prodotti 100% Italia. È più facile, si è sicuri di privilegiare il lavoro e la creazione di ricchezza sul suolo nazionale e non si rischiano gravi danni collaterali. Ma visto il livello palesato dall’autore del messaggio, questo meccanismo gli sfugge sicuramente.

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