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ETICHETTE

Latte, formaggi, pasta e riso: le etichette trasparenti spariranno presto

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Le etichette trasparenti sono destinate a sparire. Presto. L’Europa ha approvato con modifiche trascurabili la bozza di regolamento  pubblicata a gennaio in consultazione pubblica sull’etichettatura dell’ingrediente primario per i prodotti la cui presentazione potrebbe trarre in inganno i consumatori.

Il provvedimento era atteso da anni, dopo che il Regolamento Ue 1169 del 2011 aveva incaricato la Commissione di emanare una direttiva destinata a regolamentare i casi dubbi. Lo aveva deciso il Parlamento di Strasburgo, al momento di dare il via libera alle nuove disposizioni in materia di etichettatura, anche per riparare al pasticcio creato con il Codice doganale comunitario.

LE NOVITA’

Rispetto al testo lasciato in consultazione per un mese, fino all’inizio di febbraio, cambia poco. Il passaggio:

Il presente regolamento stabilisce le modalità per la fornitura di informazioni sul paese di origine o sul luogo di provenienza dell’ingrediente principale ai sensi dell’articolo 26, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 1169/2011.

Viene riformulato così:

Il presente regolamento stabilisce le modalità di applicazione dell’articolo 26, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 1169/2011 se il paese di origine o il luogo di provenienza sono forniti con qualsiasi mezzo quali dichiarazioni, rappresentazione grafica, simboli o termini, RIFERIMENTO A LUOGHI O AREE GEOGRAFICHE, ad eccezione dei termini geografici inclusi nei nomi consueti e generici, dove tali termini indicano letteralmente l’origine, ma la cui comprensione comune non è un’indicazione del Paese di origine o del luogo di provenienza.

In pratica si ribadisce un concetto sviluppato in altre parti della direttiva comunitaria. Intanto comincio con l’elencare i prodotti dai quali scomparirà ogni riferimento al Paese da cui proviene l’ingrediente primario. Sono quelli per i quali il governo uscente ha emanato alcuni decreti che rendevano obbligatoria, in Italia, la dichiarazione d’origine. Ma soltanto in via provvisoria, in attesa che Bruxelles procedesse a emanare le norme europee.

Non temete, non voglio tediare i lettori del Casalingo di Voghera con un’analisi politica sulla politica alimentare italiana. Aspetto che sviluppo abitualmente sull’altro blog che pubblico, Italiainprimapagina.it.

Le famiglie di prodotti da cui sparirà l’obbligo di indicare l’origine dell’ingrediente principale sono quattro: latte e derivati (yogurt, burro e formaggi), pasta, riso, derivati del pomodoro diversi dalla passata, vale a dire sughi, polpe e concentrati.

Resterà il vincolo sulla mprovenienza, invece, per carne fresca di pollo, manzo e ovicaprina, frutta e verdura fresche, uova, miele, passata di pomodoro e olio extravergine d’oliva.

TROPPE DEROGHE

La direttiva Ue obbliga il produttore dell’alimento a indicare l’origine dell’ingrediente primario soltanto nel caso in cui sulla confezione compaia la dicitura Made in… (ad esempio Made in Italy) oppure vi siano bandiere o altri fregi, che facciano presupporre la provenienza della materia prima da un ben determinato Paese. Con due grandi eccezioni, però, che fanno perdere d’efficacia all’obbligo. Eccole:

Il riferimento all’origine è parte del nome (ad esempio Carapelli Firenze)

La bandiera del Paese (ad esempio il nostro tricolore) è compresa in un marchio registrato

Esclusi dall’obbligo di dire quale sia la provenienza dell’ingrediente principale anche i prodotti Igp (Indicazione geografica protetta), con la conseguenza, ad esempio, che Bresaola, Speck e Mortadella potranno continuare a essere fatti con carni importate, senza dover scrivere nulla in etichetta.

PROVENIENZA: PIANETA TERRA

Ma anche nei casi in cui dovesse scattare l’obbligo di rendere trasparente la provenienza della materia prima, il produttore, anziché indicare un singolo Paese (ad esempio Argentina per la Bresaola) può cavarsela con diciture che più generiche non si può:

«UE», «non UE» oppure «UE e non UE»

Il che equivale a scrivere, come fa notare l’avvocato Dario Dongo, uno dei massimi esperti di diritto alimentare, «Origine: pianeta Terra».

È ammessa pure la seguente dichiarazione: «il (nome dell’ingrediente principale) non proviene da (il paese d’origine o il luogo di provenienza dell’alimento)» o una formulazione simile che potrebbe avere lo stesso significato per il consumatore. Ad esempio, per un formaggio:

«Il latte non proviene dall’Italia»

Una precisazione è d’obbligo. Il nuovo regolamento che spalancherà la strada ai taroccatori del made in Italy è stato scritto dalla Commissione Ue. Ma gli esperti indicati dai 28 Paesi dell’Unione, incluso quello italiano, hanno dato parere favorevole alla norma, nel corso della riunione allargata che si è svolta a Bruxelles lunedì scorso, 16 aprile 2018. Si sono astenuti, invece, i rappresentanti di Germania e Lussemburgo giudicando «troppo restrittivo» il provvedimento.

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Sentenza Ue: il gallo del Chianti non si può imitare

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bottiglie di Chianti Classico

Il gallo del Chianti è salvo. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha deciso con una sentenza storica che il simbolo del vino più noto d’Italia non può essere utilizzato sull’etichetta di altre bottiglie dal momento che rappresenta un «carattere distintivo intrinseco del marchio Chianti». Confermato il parere dell’Ufficio Ue per la proprietà intellettuale (Euipo) che aveva negato la registrazione del simbolo del gallo alla Berebene Srl.

logo gallo Berebene

Il gallo Berebene

Ad opporsi alla richiesta di registrazione avanzata dalla Berebene era stato il Consorzio di tutela del Chianti Classico ottenendo  una pronuncia favorevole da parte dell’Euipo. Ma la Berebene aveva presentato ricorso alla Corte di giustizia Ue. Ieri il verdetto.

Durissime le motivazioni della sentenza (qui il link). I giudici di Strasburgo sottolineano l’esigenza «al di là del grado di somiglianza tra i due segni, di evitare fenomeni di parassitismo commerciale. Infatti, vista l’elevata notorietà e il carattere distintivo intrinseco del marchio Chianti, il fatto di utilizzare un segno avente una certa somiglianza con esso proprio per dei vini presenta un rischio concreto che il pubblico di riferimento associ l’immagine del gallo del marchio della Berebene ai vini Chianti». E in effetti i due simboli, a parte il soggetto, si assomigliano poco. Ma la Corte Ue ha stabilito che nei consumatori si logo Chianti Classicosarebbe potuta ingenerare lo stesso confusione.

Una decisione che ribalta di fatto alcune sentenze dannose per il made in Italy a tavola. Come quella che autorizzava un’azienda agricola belga a mettere in vendita pomodori “San Marzano”, con una evocazione clamorosa ai danni della Dop Pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese Nocerino.

Vale la pena di segnalare che la Berebene Srl ha sede a Roma e francamente fa specie che una società italiana pensi di poter registrare un marchio contenente il simbolo di un vino di grande tradizione come il Chianti. I nostri prodotti – proprio a cominciare dai vini –  sono già oggetto di falsificazioni in tutto il mondo da parte di taroccatori fin troppo agguerriti. Quando le imitazioni arrivano da casa nostra sono ancora meno scusabili.

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Scoppia la guerra del pomodoro pelato

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pomodoro pelato

Puglia contro Campania: scoppia la guerra del pomodoro pelato. Dopo lo scontro sulla Mozzarella di Gioia del Colle Dop le due regioni arrivano nuovamente ai ferri corti. Questa volta per la solanacea rossa lavorata e inscatolata. A scatenare lo scontro è stata la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il 13 marzo 2021,  della richiesta di riconoscimento del Pomodoro pelato di Napoli Igp. La pratica ha già avuto il via libera dal nostro Ministero delle Politiche agricole. Ora manca soltanto l’imprimatur della Ue. Ma si tratta, a questo punto, di un passaggio formale.

Donato Pentassuglia pomodoro pelato

Donato Pentassuglia

Ai produttori pugliesi, però, non sta bene. L’assessore pugliese all’Agricoltura Donato Pentassuglia ha annunciato che la Regione si opporrà al riconoscimento. «Ci sono sessanta giorni di tempo per farlo e abbiamo quasi istruito il fascicolo», ha puntualizzato. Il motivo? Secondo i pugliesi il 90% della produzione di pelato si concentra nella provincia di Foggia. Dunque, a rigor di logica, l’Indicazione geografica protetta spetterebbe al pomodoro foggiano. Una diatriba che si trascina da almeno quattro anni ed è esplosa quando il testo con il placet del ministero è finito sulla Gazzetta Ufficiale. Ma siamo soltanto all’inizio.

IN CAMPO L’ASSOCIAZIONE CONSERVE VEGETALI

Antonio Ferraioli

Antonio Ferraioli

Sulla questione è intervenuto anche Antonio Ferraioli, presidente dell’ Anicav (Associazione nazionale industriali conserve vegetali), nata a Napoli nel 1945. «Riteniamo sia giusto fare chiarezza», ha fatto  sapere in una nota, «perché l’Indicazione geografica protetta, come si evince molto chiaramente dal disciplinare di produzione, non riguarda assolutamente la materia prima ma il prodotto trasformato, appunto il pomodoro “pelato”. Per questo motivo non si fa alcun riferimento alla provenienza del pomodoro fresco, che tutti sanno venire per la maggior parte dalla Puglia». Fra l’altro l’Igp non lega indissolubilmente l’alimento alla zona di produzione della materia prima, come accade ad esempio per Bresaola della Valtellina e Speck dell’Alto Adige che possono essere fatti a partire da carne proveniente dai cinque continenti.

Per le Dop (Denominazioni d’origine protette) devono sussistere  tre condizioni irrinunciabili:  origine del prodotto, ricetta tradizionale e luogo di trasformazione in una zona ben definita. Per le Igp bastano due di queste tre condizioni. E nel caso del Pomodoro pelato di Napoli Igp le due condizioni sono la ricetta tradizionale e il luogo di trasformazione.

TRASFORMAZIONE E MATERIE PRIME

Semmai si potrebbe discutere sul fatto che il Pomodoro pelato di Napoli Igp, da disciplinare  (qui il link), si possa produrre non soltanto nel Napoletano, ma nel «territorio amministrativo delle Regioni Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise e Puglia». Così, l’impianto di lavorazione e confezionamento potrebbe trovarsi, addirittura, in provincia di Teramo, pur sfornando il Pelato di Napoli. Ma non si tratterebbe  del primo e nemmeno dell’unico caso.

Il Prosciutto di Parma Dop, ad esempio, prevede che la zona tipica di produzione «comprenda il territorio della provincia di Parma posto a sud della via Emilia a distanza da questa non inferiore a cinque chilometri, fino ad una altitudine non superiore a 900 metri, delimitato ad est dal corso del fiume Enza e ad ovest dal corso del torrente Stirone». Dunque il vincolo dei salumifici al territorio è molto stringente. Ma il Parma Dop si può fare a partire da cosce di suini nati, allevati e macellati in Italia, provenienti però da 10 regioni italiane: Emilia- Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte, Molise, Umbria, Toscana, Marche, Abruzzo e Lazio (qui il link).

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Com’è difficile capire cosa siano le Dop e le Igp

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Dop e Igp sono le sigle che individuano i prodotti alimentari legati ai territori e alle tradizioni che questi luoghi esprimono. Un cibo a Denominazione d’origine protetta, Dop in sigla, deve rispettare tre caratteristiche:

  1. essere fatto sulla base di una ricetta tradizionale comprovata, consolidata nel tempo e strettamente legata ai luoghi in cui viene prodotto;
  2. utilizzare soltanto materie prime italiane provenienti dalle zone rigorosamente fissate dal disciplinare di produzione (spiego fra poco cosa sia il disciplinare):
  3. il luogo di produzione o trasformazione si trovi in Italia, in una zona fissata sempre dal disciplinare, solitamente uno o più comuni limitrofi

Gli alimenti a Indicazione geografica protetta, invece, devono rispettare due di queste tre condizioni. E se si eccettuano le Igp vegetali – ad esempio il Cappero di Pantelleria o la Cipolla Rossa di Tropea – di solito le due caratteristiche rispettate sono:

  1. ricetta tradizionale comprovata;
  2. luogo di produzione o trasformazione in Italia (ma non potrebbe essere diversamente).

La materia prima utilizzata nelle Igp, invece, non è necessariamente italiana e può arrivare da ogni parte del mondo., come avviene per esempio per la Bresaola della Valtellina Igp, lo Speck dell’Alto Adige Igp e la Mortadella di Bologna Igp.

Poi esistono pure le Stg (Specialità tradizionali garantite) che sono delle Igp ancora meno legate al territorio e devono in sostanza rispettare la ricetta. In tutto sono tre: mozzarella, pizza napoletana e amatriciana tradizionale.

Ecco, comunque, i tre bollini che identificano quelle che nel gergo tecnico si definiscono «indicazioni geografiche».

bollini Dop Igp Stg

Ecco i bollini di Dop, Igp ed Stg

Per semplificare, dunque. le Dop devono rispettare tre condizioni su tre, le Igp soltanto due su tre e le Stg appena una. Ma questa semplificazione è mia e vi confesso che ho impiegato anni a elaborarla nella maniera che vi ho appena esposto. Qualora un consumatore volesse approfondire sulle fonti ufficiali cosa siano Dop, Igp ed Stg ben difficilmente ci capirebbe qualcosa. Faccio alcuni esempi.

ORIGIN ITALIA

L’associazione dei consorzi di tutela delle indicazioni geografiche, Origin Italia, se la cava pubblicando sul proprio sito le definizioni ufficiali prese dal regolamento Ue 1151/2012 che paiono scritte, però, per non farsi capire. Eccole.

Con la dicitura DOP Denominazione di Origine Protetta si intende:
“il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: originario in tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese le cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani, e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nella zona geografica delimitata”.

Con la dicitura IGP Indicazione di Origine Protetta si intende:
“il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: come originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e del quale una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possono essere attribuite a tale origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell’area geografica determinata”.

Sfido chiunque a capire quali meccanismi mettano in gioco queste definizioni. Fattori naturali e umani? Qualità? Reputazione? Di cosa si parla? E nulla sulla materia prima.

IL MIO CIBO, LA TUA CONFUSIONE

Non va meglio con il sito ilmiocibo.it, iniziativa per altro lodevole, frutto di una collaborazione fra Fondazione Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura (Coldiretti) e Ministero della Salute. Nella pagina dedicata a Dop, Igp ed Stg compare infatti una infografica che ricalca purtroppo l’impostazione europea. Eccola.

 

infografica Dop Igp Stg

L’infografica che compare sul sito ilmiocibo.it

Certo, si parla di «legame (più forte nella Dop e meno forte nella igp) tra prodotto e territorio», ma quale sia questo legame non è per nulla chiaro.

TOPPA ANCHE WIKIPEDIA

Perfino Wikipedia non fa meglio e scimmiotta le definizioni comprese nel Regolamento Ue 1151/2012. Ecco cosa scrive a proposito della Dop:

L’ambiente geografico [a cui sono legate le Dop, ndA] comprende sia fattori naturali (clima, caratteristiche ambientali), sia fattori umani (tecniche di produzione tramandate nel tempo, artigianalità, savoir-faire) che, combinati insieme, consentono di ottenere un prodotto inimitabile al di fuori di una determinata zona produttiva.

E la materia prima? Per le Dop è dirimente e come abbiamo visto la sua provenienza è la caratteristica che le differenzia dalle Igp. Pure in questo caso sfido chiunque a capire fino in fondo le differenze fra le indicazioni geografiche descritte.

L’INFOGRAFICA DEL CASALINGO DI VOGHERA

Per semplificare la vita ai miei lettori ho realizzato una infografica per riassumere schematicamente il meccanismo delle tre caratteristiche il cui rispetto totale o parziale differenzia le tre indicazioni geografiche. Eccola.

differenze Dop Igp Stg

L’infografica del Casalingo di Voghera su Dop, Igp, Stg

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