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I supermercati sono pieni di pasta italiana. Basta cercarla

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I marchi che utilizzano farina di grano duro made in Italy sono tanti, ma non  è facile distinguere i maccheroni tutti italiani. Ecco come fare

L’obbligo di scrivere sulle etichette della pasta l’origine dell’ingrediente primario, vale a dire il grano, ha rivoluzionato il settore. Nel giro di  tre anni i maccheroni 100% italiani si sono moltiplicati e rispetto all’inizio del decennio scorso le marche che si sono convertite alla materia prima tricolore sono decuplicate. Basta cercarla e la pasta italiana si trova in abbondanza.

Il tranello è il solito: per andare alla ricerca di spaghetti, tortiglioni e farfalle 100% italiani bisogna essere a conoscenza di due cose:

  1. non è detto che la pasta a marca italiana sia 100% made in Italy;
  2. per distinguerla bisogna leggere con attenzione l’etichetta dove è riportata obbligatoriamente l’origine dell’ingrediente primario: il grano.

MACCHERONI ORIUNDI

Insomma, il rischio di mettere nel carrello dei maccheroni «oriundi» persiste tuttora e non è così remoto come si potrebbe pensare. Un po’ perché sui banconi dei supermercati, come sempre, i prodotti nazionali sono mischiati con gli altri. Ma soprattutto perché vi sono alcune marche che commercializzano sia pasta 100% italiana, sia pasta «origine Ue» oppure «origine Ue e non Ue». La regola aurea, valida sempre, è la solita: leggere con la massima attenzione l’etichetta e non fidarsi dei simboli  – ad esempio nastri e bandierine tricolori – che compaiono sulla confezione.

IL CONFRONTO

Le paste che impiegano a vario titolo la farina di semola di grano duro italiano sono un’ottantina. La maggior parte di queste, però, ha una diffusione locale, oppure si trova soltanto in alcune catene della grande distribuzione. Mi sono limitato a censire i tredici marchi più diffusi: Barilla, De Cecco, Divella, Garofalo, Grano Armando, La Molisana, Agnesi, Granoro, Delverde, Sgambaro, Ghigi, Antonio Amato e Voiello. I risultati li vedete riassunti nella tabella che pubblico appena sotto. Dove c’è la spunta verde vuol dire quella marca  è presente nei punti vendita con pasta 100% italiana.

origine della pasta italiana

Attenzione però: mentre alcuni pastifici producono soltanto maccheroni 100% made in Italy, per altri la produzione 100% Italia riguarda soltanto alcune linee di prodotto, che ho indicato. Per aiutarvi ho colorato in verde più chiaro i quadratini di spunta ed è ugualmente verde sbiadito lo sfondo delle celle dove si specificano le linee tutte nazionali.

OCCHIO ALLE LINEE DI PRODOTTO

Ad esempio, mentre Voiello, La Molisana e Agnesi producono solo con grano italiano, Barilla ha sia pasta 100% made in Italy sia pasta ottenuta da farina di  grano duro importato. E ci sono casi come Divella presente soltanto con una linea, pasta integrale che può vantare l’origine nazionale, mentre il resto è «origine Ue e non Ue». Ecco perché non bisogna fermarsi alla marca.

Infine una nota di cronaca. Dei grandi produttori di pasta Barilla è stato fra i primi a mettere sul mercato, col marchio Voiello, un prodotto interamente realizzato con materie prima nazionale, per la precisione col grano Aureo. Ma è stato fra gli ultimi a sposare col proprio marchio, Barilla, la linea dell’ingrediente primario 100% italiano.

Per fare un raffronto fra il peso sul mercato della pasta italiana oggi e due anni fa scarsi, potete dare un’occhiata all’articolo che ho scritto sullo stesso tema il 24 settembre 2018. Qui il link.

AGGIORNAMENTO del 30 aprile 2020

Ricevo la segnalazione da Sgambaro che l’intera produzione del pastificio di Castello di Godego, in provincia di Treviso, è fatta con grano 100% italiano, ad eccezione della pasta ottenuta dalla farina Kamut. Ne prendo atto con immenso piacere ma segnalo all’azienda trevisana che dalle pagine del sito web si desume che soltanto la linea “Etichetta Gialla” sia fatta con farina di grano duro made in Italy. Nella impossibilità di acquistare i prodotti e verificarne l’origine sull’etichettatura, come faccio solitamente (con le restrizioni per il contrasto all’epidemia di coronavirus non posso setacciare i punti vendita come di consueto), ho dovuto fidarmi di quanto riportato sui siti internet dei produttori. E da quello del pastificio Sgambaro non si evince con certezza che l’intera gamma di produzione sia ottenuta da materia prima nazionale.

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Sentenza Ue: il gallo del Chianti non si può imitare

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bottiglie di Chianti Classico

Il gallo del Chianti è salvo. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha deciso con una sentenza storica che il simbolo del vino più noto d’Italia non può essere utilizzato sull’etichetta di altre bottiglie dal momento che rappresenta un «carattere distintivo intrinseco del marchio Chianti». Confermato il parere dell’Ufficio Ue per la proprietà intellettuale (Euipo) che aveva negato la registrazione del simbolo del gallo alla Berebene Srl.

logo gallo Berebene

Il gallo Berebene

Ad opporsi alla richiesta di registrazione avanzata dalla Berebene era stato il Consorzio di tutela del Chianti Classico ottenendo  una pronuncia favorevole da parte dell’Euipo. Ma la Berebene aveva presentato ricorso alla Corte di giustizia Ue. Ieri il verdetto.

Durissime le motivazioni della sentenza (qui il link). I giudici di Strasburgo sottolineano l’esigenza «al di là del grado di somiglianza tra i due segni, di evitare fenomeni di parassitismo commerciale. Infatti, vista l’elevata notorietà e il carattere distintivo intrinseco del marchio Chianti, il fatto di utilizzare un segno avente una certa somiglianza con esso proprio per dei vini presenta un rischio concreto che il pubblico di riferimento associ l’immagine del gallo del marchio della Berebene ai vini Chianti». E in effetti i due simboli, a parte il soggetto, si assomigliano poco. Ma la Corte Ue ha stabilito che nei consumatori si logo Chianti Classicosarebbe potuta ingenerare lo stesso confusione.

Una decisione che ribalta di fatto alcune sentenze dannose per il made in Italy a tavola. Come quella che autorizzava un’azienda agricola belga a mettere in vendita pomodori “San Marzano”, con una evocazione clamorosa ai danni della Dop Pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese Nocerino.

Vale la pena di segnalare che la Berebene Srl ha sede a Roma e francamente fa specie che una società italiana pensi di poter registrare un marchio contenente il simbolo di un vino di grande tradizione come il Chianti. I nostri prodotti – proprio a cominciare dai vini –  sono già oggetto di falsificazioni in tutto il mondo da parte di taroccatori fin troppo agguerriti. Quando le imitazioni arrivano da casa nostra sono ancora meno scusabili.

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Scoppia la guerra del pomodoro pelato

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pomodoro pelato

Puglia contro Campania: scoppia la guerra del pomodoro pelato. Dopo lo scontro sulla Mozzarella di Gioia del Colle Dop le due regioni arrivano nuovamente ai ferri corti. Questa volta per la solanacea rossa lavorata e inscatolata. A scatenare lo scontro è stata la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il 13 marzo 2021,  della richiesta di riconoscimento del Pomodoro pelato di Napoli Igp. La pratica ha già avuto il via libera dal nostro Ministero delle Politiche agricole. Ora manca soltanto l’imprimatur della Ue. Ma si tratta, a questo punto, di un passaggio formale.

Donato Pentassuglia pomodoro pelato

Donato Pentassuglia

Ai produttori pugliesi, però, non sta bene. L’assessore pugliese all’Agricoltura Donato Pentassuglia ha annunciato che la Regione si opporrà al riconoscimento. «Ci sono sessanta giorni di tempo per farlo e abbiamo quasi istruito il fascicolo», ha puntualizzato. Il motivo? Secondo i pugliesi il 90% della produzione di pelato si concentra nella provincia di Foggia. Dunque, a rigor di logica, l’Indicazione geografica protetta spetterebbe al pomodoro foggiano. Una diatriba che si trascina da almeno quattro anni ed è esplosa quando il testo con il placet del ministero è finito sulla Gazzetta Ufficiale. Ma siamo soltanto all’inizio.

IN CAMPO L’ASSOCIAZIONE CONSERVE VEGETALI

Antonio Ferraioli

Antonio Ferraioli

Sulla questione è intervenuto anche Antonio Ferraioli, presidente dell’ Anicav (Associazione nazionale industriali conserve vegetali), nata a Napoli nel 1945. «Riteniamo sia giusto fare chiarezza», ha fatto  sapere in una nota, «perché l’Indicazione geografica protetta, come si evince molto chiaramente dal disciplinare di produzione, non riguarda assolutamente la materia prima ma il prodotto trasformato, appunto il pomodoro “pelato”. Per questo motivo non si fa alcun riferimento alla provenienza del pomodoro fresco, che tutti sanno venire per la maggior parte dalla Puglia». Fra l’altro l’Igp non lega indissolubilmente l’alimento alla zona di produzione della materia prima, come accade ad esempio per Bresaola della Valtellina e Speck dell’Alto Adige che possono essere fatti a partire da carne proveniente dai cinque continenti.

Per le Dop (Denominazioni d’origine protette) devono sussistere  tre condizioni irrinunciabili:  origine del prodotto, ricetta tradizionale e luogo di trasformazione in una zona ben definita. Per le Igp bastano due di queste tre condizioni. E nel caso del Pomodoro pelato di Napoli Igp le due condizioni sono la ricetta tradizionale e il luogo di trasformazione.

TRASFORMAZIONE E MATERIE PRIME

Semmai si potrebbe discutere sul fatto che il Pomodoro pelato di Napoli Igp, da disciplinare  (qui il link), si possa produrre non soltanto nel Napoletano, ma nel «territorio amministrativo delle Regioni Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise e Puglia». Così, l’impianto di lavorazione e confezionamento potrebbe trovarsi, addirittura, in provincia di Teramo, pur sfornando il Pelato di Napoli. Ma non si tratterebbe  del primo e nemmeno dell’unico caso.

Il Prosciutto di Parma Dop, ad esempio, prevede che la zona tipica di produzione «comprenda il territorio della provincia di Parma posto a sud della via Emilia a distanza da questa non inferiore a cinque chilometri, fino ad una altitudine non superiore a 900 metri, delimitato ad est dal corso del fiume Enza e ad ovest dal corso del torrente Stirone». Dunque il vincolo dei salumifici al territorio è molto stringente. Ma il Parma Dop si può fare a partire da cosce di suini nati, allevati e macellati in Italia, provenienti però da 10 regioni italiane: Emilia- Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte, Molise, Umbria, Toscana, Marche, Abruzzo e Lazio (qui il link).

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Com’è difficile capire cosa siano le Dop e le Igp

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Dop e Igp sono le sigle che individuano i prodotti alimentari legati ai territori e alle tradizioni che questi luoghi esprimono. Un cibo a Denominazione d’origine protetta, Dop in sigla, deve rispettare tre caratteristiche:

  1. essere fatto sulla base di una ricetta tradizionale comprovata, consolidata nel tempo e strettamente legata ai luoghi in cui viene prodotto;
  2. utilizzare soltanto materie prime italiane provenienti dalle zone rigorosamente fissate dal disciplinare di produzione (spiego fra poco cosa sia il disciplinare):
  3. il luogo di produzione o trasformazione si trovi in Italia, in una zona fissata sempre dal disciplinare, solitamente uno o più comuni limitrofi

Gli alimenti a Indicazione geografica protetta, invece, devono rispettare due di queste tre condizioni. E se si eccettuano le Igp vegetali – ad esempio il Cappero di Pantelleria o la Cipolla Rossa di Tropea – di solito le due caratteristiche rispettate sono:

  1. ricetta tradizionale comprovata;
  2. luogo di produzione o trasformazione in Italia (ma non potrebbe essere diversamente).

La materia prima utilizzata nelle Igp, invece, non è necessariamente italiana e può arrivare da ogni parte del mondo., come avviene per esempio per la Bresaola della Valtellina Igp, lo Speck dell’Alto Adige Igp e la Mortadella di Bologna Igp.

Poi esistono pure le Stg (Specialità tradizionali garantite) che sono delle Igp ancora meno legate al territorio e devono in sostanza rispettare la ricetta. In tutto sono tre: mozzarella, pizza napoletana e amatriciana tradizionale.

Ecco, comunque, i tre bollini che identificano quelle che nel gergo tecnico si definiscono «indicazioni geografiche».

bollini Dop Igp Stg

Ecco i bollini di Dop, Igp ed Stg

Per semplificare, dunque. le Dop devono rispettare tre condizioni su tre, le Igp soltanto due su tre e le Stg appena una. Ma questa semplificazione è mia e vi confesso che ho impiegato anni a elaborarla nella maniera che vi ho appena esposto. Qualora un consumatore volesse approfondire sulle fonti ufficiali cosa siano Dop, Igp ed Stg ben difficilmente ci capirebbe qualcosa. Faccio alcuni esempi.

ORIGIN ITALIA

L’associazione dei consorzi di tutela delle indicazioni geografiche, Origin Italia, se la cava pubblicando sul proprio sito le definizioni ufficiali prese dal regolamento Ue 1151/2012 che paiono scritte, però, per non farsi capire. Eccole.

Con la dicitura DOP Denominazione di Origine Protetta si intende:
“il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: originario in tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese le cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani, e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nella zona geografica delimitata”.

Con la dicitura IGP Indicazione di Origine Protetta si intende:
“il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: come originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e del quale una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possono essere attribuite a tale origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell’area geografica determinata”.

Sfido chiunque a capire quali meccanismi mettano in gioco queste definizioni. Fattori naturali e umani? Qualità? Reputazione? Di cosa si parla? E nulla sulla materia prima.

IL MIO CIBO, LA TUA CONFUSIONE

Non va meglio con il sito ilmiocibo.it, iniziativa per altro lodevole, frutto di una collaborazione fra Fondazione Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura (Coldiretti) e Ministero della Salute. Nella pagina dedicata a Dop, Igp ed Stg compare infatti una infografica che ricalca purtroppo l’impostazione europea. Eccola.

 

infografica Dop Igp Stg

L’infografica che compare sul sito ilmiocibo.it

Certo, si parla di «legame (più forte nella Dop e meno forte nella igp) tra prodotto e territorio», ma quale sia questo legame non è per nulla chiaro.

TOPPA ANCHE WIKIPEDIA

Perfino Wikipedia non fa meglio e scimmiotta le definizioni comprese nel Regolamento Ue 1151/2012. Ecco cosa scrive a proposito della Dop:

L’ambiente geografico [a cui sono legate le Dop, ndA] comprende sia fattori naturali (clima, caratteristiche ambientali), sia fattori umani (tecniche di produzione tramandate nel tempo, artigianalità, savoir-faire) che, combinati insieme, consentono di ottenere un prodotto inimitabile al di fuori di una determinata zona produttiva.

E la materia prima? Per le Dop è dirimente e come abbiamo visto la sua provenienza è la caratteristica che le differenzia dalle Igp. Pure in questo caso sfido chiunque a capire fino in fondo le differenze fra le indicazioni geografiche descritte.

L’INFOGRAFICA DEL CASALINGO DI VOGHERA

Per semplificare la vita ai miei lettori ho realizzato una infografica per riassumere schematicamente il meccanismo delle tre caratteristiche il cui rispetto totale o parziale differenzia le tre indicazioni geografiche. Eccola.

differenze Dop Igp Stg

L’infografica del Casalingo di Voghera su Dop, Igp, Stg

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