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TENDENZE A TAVOLA

Ecco perché il casalingo di Voghera dice no all’olio di palma

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Ho esitato molto prima di scrivere questo post. Lo confesso: dopo aver letto e ascoltato decine di pareri sull’olio di palma, ho le idee più confuse di prima. Riassumo in breve quel poco che mi sembra di poter raccontare senza essere sommerso dalle smentite.

Innanzitutto il palma appartiene alla categoria dei grassi saturi, che si trovano in molti alimenti della nostra dieta quotidiana: i tagli grassi della carne, la pelle del pollo, le salsicce e i polpettoni, il latte intero e tutti i prodotti caseari come formaggi e panna, il burro, il lardo, l’olio di cocco, l’olio di palma. Oltre a tutti i prodotti dolciari come pasticcini, merendine e biscotti che ne fanno consigli di consumolargo uso. La principale argomentazione utilizzata dall’industria alimentare per giustificare l’impiego del grasso tropicale è che qualora venga inserito in una dieta bilanciata non ha alcuna controindicazione per la salute di quanti lo consumano. La dose giornaliera che si sconsiglia di superare è quella contenuta in una merendina oppure in tre o quattro biscotti. Ma proprio qui sta la trappola: mentre è remoto il rischio che i consumatori si rimpinzino di burro o di lardo, non è infrequente, soprattutto fra i più giovani, imbattersi in persone che facciano largo uso di prodotti da forno: merendine, biscotti, creme al cioccolato. Questo gli industriali lo sanno bene ma si dimenticano di esplicitarlo nel megasito internet dedicato al tema, accessibile su Oliodipalmasostenibile.it, dove ho trovato un ventaglio di motivazioni a supporto del «consumo responsabile» che non mi sono nuove. Dopo la polemica sollevata dalla Malesia all’Expo – con una sala del padiglione in cui si faceva una pubblicità smaccata del palma – l’Aidepi, associazione degli industriali del dolce, convocò una conferenza stampa in cui chiedeva l’aiuto dei giornalisti a «ristabilire la verità sull’olio di palma». All’incontro c’ero anch’io e ricordo bene i temi che si trovano ora minuziosamente sviluppati sul sito web.

Una volta tanto preferisco non addentrami nell’analisi delle argomentazioni utilizzate dall’industria a supporto della propria tesi. Mi limito ad elencare i tre motivi sulla base dei quali il casalingo di Voghera dice no al palma.

ORIGINE. Innanzitutto si tratta di un prodotto importato che ha sostituito analoghi grassi largamente utilizzati fino a qualche decennio fa dall’industria dolciaria ma prodotti anche nel nostro Paese, a cominciare dal burro e dall’olio di girasole. Come sempre, quando esiste un’alternativa made in Italy anche se più costosa, la mia preferenza ricade sugli ingredienti nazionali.

SOSTENIBILITÀ. Permettetemi di esprimere qualche dubbio sulla sostenibilità delle colture di palma da olio. Come ricorderanno in molti il Gp di Sepang che si correva sul circuito malesiano nell’ottobre 2015, è stato a lungo in forse proprio per la nube gigantesca di fumo sprigionato dagli incendi appiccati alla foresta pluviale per far posto alle piantagioni di palma. L’ultima cosa che voglio è portare a tavola prodotti che contengano un ingrediente responsabile della distruzione sistematica di un ecosistema. Me ne frego delle certificazioni prodotte a tavolino: nei Paesi del Sud Est asiatico, pagando puoi ottenere tutto. Il concetto stesso di sostenibilità, assieme a quello di trasparenza, non è mai entrato nel vocabolario delle istituzioni locali.

CONVENIENZA (ECONOMICA). E a proposito di trasparenza, nel peana che i soci dell’Unione italiana olio di palma sostenibile (Ferrero, Unilever, Neslté e Unigrà) intonano sul loro sito internet a favore del grasso tropicale, manca del tutto World_-_Quadro_storico_di_confronto_fra_i_prezzi-l’argomentazione numero uno che ha indirizzato la scelta dell’industria: rispetto agli altri grassi vegetali e animali il palma costa meno ed è più facilmente lavorabile perché si trova in uno stato semi solido e non irrancidisce. Chi volesse approfondire il tema può consultare una documentatissima analisi del Clal di cui pubblico il grafico di raffronto fra le quotazioni in Italia del palma e quelle di margarina e oli vegetali raffinati. Perché nascondere questo aspetto? Perché non dirlo chiaramente nell’ambito di un’iniziativa che vuol qualificarsi come una «operazione verità»? È proprio questo atteggiamento, trasparente ma non troppo, disponibile a raccontare ma fino a un certo punto, sincero fino a prova contraria, che mi ha convinto a scrivere questo post. E che mi induce a dubitare regolarmente di quel che leggo sulle etichette dei prodotti industriali.

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TENDENZE A TAVOLA

La casalinga di Voghera c’è ancora. E acquista in mezzo a noi

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casalinga di Voghera
Teatro Valentino Garavani Voghera

Il Teatro Valentino Garavani a Voghera

La casalinga di Voghera c’è. Eccome! E acquista in mezzo a noi, come ha fatto fin dagli anni del boom economico, quando Alberto Arbasino, giornalista, scrittore e saggista vogherese la sdoganò a beneficio del grande pubblico, parlandone prima su L’Espresso e poi sul Corriere della Sera. Al tema era dedicato un convegno organizzato il 5 dicembre 2023 dall’Assolombarda al Teatro Valentino Garavani, a Voghera, riaperto a fine novembre dopo 37 anni di chiusura. Come avevo anticipato ai lettori del mio blog nel post di annuncio dell’evento (qui il link) vi ho preso parte. Da spettatore.

Fra i tanti interventi del dibattito magistralmente guidato dal presidente della Fondazione Assolombarda Antonio Calabrò – non vi faccio la cronaca dell’evento – uno mi ha colpito in particolare. Quello di Nando Pagnoncelli, sondaggista e amministratore delegato della Ipsos.

MICROCOSMO VOGHERESE

Nando Pagnoncelli

Nando Pagnoncelli

Dopo aver premesso che «il 12% delle italiane sono casalinghe» Pagnoncelli ha puntualizzato che la casalinga di Voghera non c’è più perché, in un mondo connesso e caratterizzato da un «ecosistema comunicativo ricco e complesso», sarebbe venuto meno «il microcosmo che alimentava un certo tipo di modus vivendi». Si è verificato un cambiamento antropologico. «Il tramonto delle subculture ha determinato una frammentazione identitaria, che ha portato con sé una mancanza di visione unica del sé e una volatilità delle opinioni». Dunque sarebbe sparita la casalinga di Voghera storica. Quella che negli anni Sessanta era già adulta e aveva per lo meno una ventina d’anni. Ma parliamo di quasi sessant’anni fa. Dunque, ammesso che sia ancora vivente, la ventenne di allora oggi di primavere ne avrebbe superate per lo meno 80. Più facilmente 90.

Ma il riferimento al 12% di italiane casalinghe fatto dal sondaggista mi ha incuriosito. Così ho approfondito il dato. La fonte è la più ufficiale che vi possa essere, l’Istat, che classifica le casalinghe come persone di sesso femminile con almeno 15 anni di età che non abbiano svolto nemmeno un’ora di lavoro nel periodo di riferimento. In questo caso il rapporto dell’Istituto di statistica risale al 2017. Dati più recenti non ce ne sono.

I NUMERI DELL’ISTAT

Ebbene, secondo l’Istat, nel 2016 erano «7milioni e 338mila le donne che si dichiarano casalinghe». Ma la loro percentuale sul totale della popolazione varia molto al trascorrere dell’età, come si vede chiaramente dal grafico che pubblico qui a fianco e vanno dall’8,5% nella fascia da 15 a 34 anni, fino al 20,5% nel cluster da 55 a 64 anni. Per superare il 40% da 65 anni in su, ma questo è normale perché da quell’età in poi soltanto una minima parte delle donne (e pure degli uomini) svolge ancora un lavoro. E in effetti 7,3 milioni di casalinghe rappresentano poco meno del 12% sui 60 milioni di italiani. occupate e casalinghe Istat

Ma il 12% è un cluster di popolazione comunque significativo da un punto di vista demografico e dei comportamenti sociali. Si tratta di stabilire, semmai, se le casalinghe e in particolare quelle di Voghera, abbiamo atteggiamenti di acquisto diversi dalle altre. Ma qui i dati statistici non ci sono di alcun aiuto. L’Istat arriva al massimo a dividere le casalinghe per grande ripartizione geografica, vale a dire nord, centro e sud Italia. Oltre non va. Le uniche fonti  in grado di fare un raffronto sui bacini geografici di appartenenza sono le catene della grande distribuzione che attraverso le carte fedeltà hanno tutti i dati sugli acquisti effettuati dalle clienti suddivise per fascia di età e probabilmente per occupazione. Ma si tratta di dati sensibili, protetti dalle norme sulla privacy e le insegne della Gdo che ne sono in possesso li custodiscono gelosamente. Così come fanno le corazzate dei big data sul largo consumo, come Nielsen e Circana il cui business si basa proprio sulla vendita dei dati sul comportamento dei consumatori.

Un po’ oltre si spinge l’Osservatorio Immagino pubblicato periodicamente da Gs1 Italia, l’associazione dei codici a barre, che analizza le scelte d’acquisto dei consumatori nelle diverse regioni italiane. Ma non scende nel dettaglio dei singoli bacini geografici come possono essere Voghera e il Vogherese.

IL CARRELLO DELLA CASALINGA

L’unica cosa che si può dire con certezza è che questo 12% di casalinghe vogheresi – numericamente pari a poco meno di 5mila persone – esistono, sono in mezzo a noi e continuano ad acquistare beni di consumo, come facevano le loro mamme e le loro nonne negli anni Sessanta. Resta aperta, questo sì, la composizione del loro carrello della spesa da cui discende la loro rappresentatività attuale come cluster omogeneo e significativo di consumatrici. Ma questo è un altro discorso, che si confonde con quello più ampio delle fasce di consumatori e della loro propensione all’acquisto. I dati esistono. Ma chi ne è in possesso si guarda bene dal renderli pubblici e il Casalingo di Voghera non può che fermarsi qui.

NOTA SULL’IMMAGINE IN EVIDENZA. L’immagine della casalinga che ho utilizzato per illustrare in apertura il post è stata generata con l’intelligenza artificiale artificiale e resa disponibile sul portale Pixabay (qui la pagina dell’autrice).

 

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Oltrepò Pavese

Esiste ancora la casalinga di Voghera?

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la casalinga di Voghera

C’è ancora la casalinga di Voghera? Le consumatrici vogheresi possono vantare tuttora il primato d’interesse da parte di produttori e venditori dei beni di consumo, che negli anni del boom economico le ha rese famose? Il tema è assurto agli onori delle cronache dopo il botta e risposta fra Myrta Merlino e Barbara D’Urso. La prima, in arrivo da La 7, ha sostituito la seconda alla conduzione di Pomeriggio 5, il contenitore in onda sulla rete regina di Mediaset dal 2008. E per rimarcare lo stacco rispetto alla conduzione precedente, la Merlino ha decretato la scomparsa della Casalinga di Voghera, a suo giudizio fino ad allora punto di riferimento del talk pomeridiano del Biscione. «Credo che la casalinga di Voghera non esista più», ha sentenziato in una intervista alla Stampa, «sono donne e madri come me e hanno le mie stesse curiosità e le mie stesse paure».

Barbara D'Urso e Myrta Merlino

Barbara D’Urso e Miyrta Merlino

Non si è fatta attendere la risposta di Barbara D’Urso: «Io parlo alle famose casalinghe di Voghera, alla comara Cozzolino», ha risposto piccata, «mi dispiace per chi non lo pensa, ma esistono. Anche io sono una comara».

Lo stereotipo della casalinga di Voghera, come modello delle consumatrici particolarmente sensibili alle campagne pubblicitarie risale addirittura agli anni Sessanta. Era il 1966 quando il Servizio Opinioni della Rai commissionò un’indagine di mercato in tutte le province italiane con l’obiettivo di verificare quale fosse il grado di comprensione delle cronache politiche. Le casalinghe vogheresi risultarono quelle meno inclini alla lettura critica del messaggio televisivo. E dunque più influenzabili dai messaggi pubblicitari.

ARBASINO O PLACIDO?

Le declinazioni giornalistiche di quello che da allora in poi divenne il “cluster” per eccellenza, l’archetipo delle consumatrici e dei consumatori italiani, ha tenuto banco per decenni. Ma a chi si deve una notorietà così solida? La paternità della definizione non è univoca. In un articolo sul Corriere della Sera Alberto Arbasino, vogherese, scrittore e saggista, la rivendicò, raccontando di aver citato più volte la casalinga di Voghera negli articoli pubblicati sul settimanale L’Espresso, fin dagli anni Sessanta. Ma non tutti sposano questa ricostruzione. Secondo lo scrittore Massimo Castoldi e il lessicografo Ugo Salvi, autori del volume Parole per ricordare. Dizionario della memoria collettiva, sarebbe stato Beniamino Placido, giornalista, critico letterario e conduttore televisivo ad aver reso davvero famosa la casalinga di Voghera pubblicando una lettera al direttore di Repubblica Eugenio Scalfari, firmata “la Casalinga di Voghera”, nella rubrica di corrispondenza dei lettori del quotidiano.

Beniamino Placido e Alberto Arbasino

Beniamino Placido e Alberto Arbasino

La questione è destinata a rimanere irrisolta, visto che i protagonisti della vicenda non ci sono più. Arbasino è mancato nel 2020 e Placido dieci anni prima. Ma il tema è aperto e reso quanto mai attuale dalla sfida quotidiana che affrontano milioni di italiani. Quella della spesa. E il carrello della casalinga vogherese si tinge di giallo. Così la domanda ritorna implacabile: c’è ancora la casalinga di Voghera?

Un interrogativo che risuonerà perentorio il 5 dicembre 2023, al Teatro Sociale di Voghera, ribattezzato Teatro Valentino Garavani, appena riaperto dopo quasi quarant’anni di chiusura, dove si terrà un evento organizzato dall’Assolombarda. «Ma ci sarà ancora la casalinga di Voghera?» è il titolo del dibattito il cui sottotitolo offre una chiave di lettura molto interessante: «Riflessione semiseria dal boom economico ai nuovi consumi». E proprio nello sviluppo sociodemografico che ha accompagnato i consumi nel nostro Paese c’è la risposta a quella che assomiglia da vicino a una domanda da un milione di dollari.

LE CARTE FEDELTÀ DELLA “GRANDE I”

La soluzione forse sta nell’arena in cui si è sviluppata nei decenni l’azione della casalinga vogherese. Dapprima i negozi. Le botteghe che per fortuna sopravvivono anche se meno numerose. Poi supermercati e ipermercati. Il cambiamento epocale che ha segnato i mercati di consumo in tutto il mondo negli ultimi cinquant’anni. Come sono strettamente legate ad ogni epoca le abitudini d’acquisto delle casalinghe di Voghera. E qui sta probabilmente la chiave per decifrare il quesito sulla nostra casalinga: c’è ancora? Se esiste qualcuno in grado di rispondere con cognizione di causa è chi le ha venduto e le vende tuttora la spesa. Non i vecchi bottegai degli anni Sessanta che non ci sono più per motivi anagrafici. Ma chi l’ha accompagnata per lo meno negli ultimi quarant’anni di spesa. E c’è un unico soggetto che lo ha fatto: l’Iper d Montebello della Battaglia. Il primo punto vendita della Grande i aperto nel 1974 a Montebello – a due passi da Voghera – da Marco Brunelli, l’inventore degli ipermercati all’italiana. Il guru indiscusso delle grandi superfici.

Marco Brunelli

Marco Brunelli

È nel tesoro di dati e informazioni sull’Iper di Montebello, custodite nel database della Finiper, la holding del gruppo di Brunelli, che sta la risposta definitiva alla nostra domanda. Com’è cambiato nel tempo il modo di fare la spesa della casalinga di Voghera? C’è un modo di comperare caratteristico del Vogherese, diverso da quello rilevabile negli altri negozi a insegna “Grande i”?

Nei milioni di spese registrate negli anni con la carta fedeltà della catena di Brunelli – la Carta Vantaggi – c’è la soluzione. Non so dirvi se e come vengano custoditi i dati storici. Ma qualora fosse possibile confrontare l’andamento nel tempo delle spese fatte a Montebello della Battaglia con quelle degli altri punti vendita della Grande i, saremmo molto vicini alla risposta sulla casalinga di Voghera.

Non è tanto importante verificare il cambiamento nel tempo delle abitudini d’acquisto nel singolo negozio. Do per scontato che la spesa fatta oggi, nel 2023, sia radicalmente diversa da quella dei decenni scorsi. L’obiettivo è capire se esista una “spesa alla vogherese” nella quale si possano indentificare le scelte compiute dalla locale casalinga. E se queste differenze permangano nel tempo.

IL CASALINGO DI VOGHERA

Consentitemi, infine, una considerazione personale. Mi capita spesso, per lavoro, di indossare a mia volta i panni del casalingo di Voghera per rilevare nei supermercati della zona prezzi, offerte e assortimenti sui banconi. Passo giornate intere a raggranellare numeri che poi confronto e racconto ai miei lettori del mio blog e non solo. Ma nonostante trascorra un gran tempo a contatto con i consumatori vogheresi, non ho le certezze di Myrta Merlino. Non so dire se sopravviva e come si comporti la casalinga di Voghera. E non so neppure da cosa derivi la certezza granitica della Merlino sulla scomparsa della storica casalinga.

L’unica casalinga che non c’è più è quella in vetroresina della statua regalata al Comune di Voghera nel 2006 dall’Associazione casalinghe di Voghera, presieduta da Paola Zanin, allora molto attiva. Il simulacro a grandezza naturale è rimasto esposto fino al 2015 nel cortile della ex caserma di cavalleria, gigantesca struttura ormai cadente che ospita due grandi parcheggi. Nell’anno dell’Expo l’amministrazione comunale decise di rimuoverla e da quel che mi risulta non se ne dolse nessuno.

statua della Casalinga di Voghera

La statua della Casalinga di Voghera rimossa dal Comune nel 2015

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TENDENZE A TAVOLA

La rivincita della Bonarda

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Il vino più popolare dell’Oltrepò Pavese si conferma al quinto posto fra le etichette più acquistate dai consumatori italiani.

Per anni trascurata, nascosta financo con imbarazzo malcelato da molti vignaiuoli dell’Oltrepò Pavese in quanto vino popolare, la Bonarda si è presa anche quest’anno la rivincita. Non solo rimane stabilmente nella classifica di primi 5 vini che finiscono nel carrello della spesa degli italiani, ma il suo peso cresce. Nel 2019 ne sono stati venduti nella grande distribuzione 8.853.523 litri, lo 0,9% in più rispetto all’anno precedente (fonte Iri Infoscan-Vinitaly). Il dato non riguarda soltanto la produzione di Bonarda dell’Oltrepò Pavese, ma include l’omonimo vino prodotto in Piemonte con l’uva Rara, mentre la Doc della provincia di Pavia si ottiene dalla vinificazione dell’uva croatina, un vitigno autoctono presente anche in misura minore nel Piacentino e in Piemonte.

classifica dei vini venduti al supermercato

Per oltre un decennio la Bonarda è stata considerata alla stregua di un parente povero dei più blasonati Pinot Nero e soprattutto dello Spumante Metodo Classico. Un parente di quelli che creano imbarazzo. Forse perché ritenuti troppo rozzi e grossolani per condividere i destini del resto della famiglia. Da tenere a distanza e non menzionare nemmeno, nella speranza che «gli altri» se lo dimentichino.

DALLE DAMIGIANE ALL’ETICHETTA

Certo questo vino fresco e spumeggiante, fruttato e a volte con sentori di pepe nero, ha alle spalle una storia non sempre luccicante. Venduto per decenni in damigiana, riflette l’evoluzione del territorio in cui nasce che dal dopoguerra e fino a buona parte degli anni Ottanta produceva tanto vino ma ne imbottigliava abbastanza poco. Cerlto l’Oltrepò è la culla di alcuni tra i migliori spumanti al mondo e le produzioni enoiche a valore hanno assicurato a molte etichette di nome ottimi margini di guadagno. Ma non per questo ci si deve dimenticare – o peggio vergognare – del campione di vendite del territorio, che rimane la Bonarda. Un vino capace di mettersi alle spalle etichette ben più blasonate, come il Vermentino, il Merlot, il Nero d’Avola e il Primitivo.

VINO POPOLARE

Certo, resta un vino scapigliato, popolare, che si fa prediligere anche per un prezzo abbordabile, alla portata di tutte le tasche, in un mercato al quale la chiusura di ristoranti, bar ed enoteche con le misure di contenimento del coronavirus,  sta cambiando i connotati. Sempre secondo la ricerca Iri Infoscan, nelle prime tre settimane di aprile, in coincidenza con la ricorrenza di Pasqua, le vendite di bollicine sono crollate del 27,7%, proprio a vantaggio dei vini popolari. Quelli da pasto. Per capire se e come la Bonarda si sia avvantaggiata di questo fenomeno serviranno alcuni mesi, nel frattempo vale la pena di prendere nota che alle etichette blasonate sta andando male. Anzi, malissimo.

grappoli di uva croatina per la Bonarda

Grappoli di uva croatina

ABBINAMENTI D’OBBLIGO

Gli esperti definiscono la Bonarda un vino «a tutto pasto», nel senso che può accompagnare praticamente quasi tutte le portate. Ideale con agnolotti, ravioli di carne ma pure risotti, si fa apprezzare pure con carni bianche arrosto o in umido, formaggi a media stagionatura e salumi. A cominciare dal Salame di Varzi Dop, l’unica Denominazione d’origine protetta del territorio con cui crea un’associazione di sapori inconfondibile, un binomio perfetto soprattutto se accompagnato dal Miccone dell’Oltrepò Pavese, un Prodotto agroalimentare tradizionale (Pat) colpevolmente misconosciuto dal sistema agroalimentare locale.

QUELLA SPUMA CHE NON PUÒ MANCARE

Infine una nota del tutto personale. Per il Casalingo di Voghera la Bonarda non può che essere quella frizzante che riempie il bicchiere di una spuma color porpora per pochi secondi, all’atto della mescita. La Bonarda ferma, che pure si produce anche se in quantitativo ridotto, non è rispettosa delle tradizioni e non ha la mia considerazione. La evito con cura.

Per ulteriori informazioni sui vini dell’Oltrepò Pavese si può consultare il sito ufficiale del Consorzio di tutela a questo link. Mentre è dedicato interamente alla Bonarda il sito Lamossaperfetta.it animato da 16 produttori che hanno dato vita al rilancio in grande stile del vino più famoso (e più acquistato) dell’Oltrepò.

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