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SPESA

Tre cosa da sapere per fare la spesa senza prendere la multa

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Fare acquisti è diventato un affare serio. Soprattutto nei comuni situati all’interno delle zone rosse, introdotte dalle ultime disposizioni in materia di contenimento della pandemia. In pratica è consentito uscire dal proprio domicilio soltanto per comprovate esigenze oggettive, come quella di acquistare generi alimentari o beni di prima necessità. Le attività che possono continuare ad operare anche nelle zone rosse sono incluse nell’allegato 23 al Dpcm (Decreto del presidente del Consiglio dei ministri) emanato il 3 novembre 2020.

Eccole…

Alimentari e bevande venduti in ipermercati, supermercati, discount di alimentari, minimercati ed altri esercizi non specializzati
Surgelati nella grande distribuzione e presso negozi specializzati
Commercio al dettaglio di computer, periferiche, telefoni, attrezzature per le telecomunicazioni, elettronica di consumo, audio e video, elettrodomestici venduti in esercizi specializzati e non specializzati (dunque anche supermercati e ipermercati)
Tabacchi, sigarette elettroniche e liquidi da inalazione
Benzinai
Ferramenta, vetrai, materiali da costruzione (inclusi ceramiche e piastrelle venduti in esercizi specializzati
Sanitari (vasche da bagno, docce, saune, lavandini, bidet eccetera)
Giardinaggio: macchine, attrezzature e prodotti venduti in esercizi specializzati
Articoli per l’illuminazione e videosorveglianza, antifurti in esercizi specializzati
Librerie
Edicole
Cartolerie e forniture per l’ufficio
Abiti e calzature per bambini e neonati
Giocattoli in esercizi specializzati
Biancheria personale venduta negli esercizi specializzati
Articoli e abbigliamento sportivo e per il tempo libero, biciclette in punti vendita specializzati
Concessionarie auto e moto
Officine
Autoricambi
Farmacie e parfarmacie
Animali domestici e loro alimenti venduti in esercizi specializzati
Fioristi
Profumerie
Erboristerie
Ottici
Combustibili per riscaldamento
Saponi, detersivi e prodotti per la casa
Banchi dei mercati dedicati alla vendita di alimentari e bevande; ortofrutticoli, pesci e crostacei, fiori, piante, bulbi e fertilizzanti, profumi e cosmetici, saponi, detersivi e altri detergenti; biancheria; confezioni e calzature per bambini e neonati
Commercio online di qualsiasi prodotto non compreso nelle categorie precedenti

PICCOLI COMUNI

Ma se questi sono gli esercizi che possono rimanere aperti – e sono davvero tanti – c’è un particolare importante che né il decreto e neppure le circolari del Ministero dell’Interno chiariscono: qualora nel comune dove si risiede non sia aperto nessuno di questi esercizi, ci si può spostare? In quale misura? E per acquistare cosa? Un libro, ad esempio non rientra nella categoria dei «beni di prima necessità», dunque se nel proprio comune di residenza non ci fosse alcuna libreria, lo si può ordinare soltanto via internet. Stesso ragionamento per computer, profumi, prodotti per il fai da te, biancheria personale, fiori, alimenti per animali. Giusto per fare alcuni esempi.

Sabato 14 novembre 2020, però, il governo ha aggiornato sul proprio sito internet (Governo.it) l’elenco delle domande e delle risposte dedicate agli interrogativi più frequenti sulla materia di spostamenti nella zone rosse e arancioni. In quest’ultimo caso decade il vincolo di spostamento solo in caso di necessità, ma permane quello di restare entro il comune di residenza.

TERRITORIO «CONTIGUO»

C’è, in particolare, un quesito e relativa risposta, che modifica la questione, anche se non chiarisce fino in fondo cosa sia lecito fare e cosa, invece, resti vietato. Eccolo:

DOMANDA: posso fare la spesa in un Comune diverso da quello in cui abito?
Gli spostamenti verso Comuni diversi da quello in cui si abita sono vietati, salvo che per specifiche esigenze o necessità.

RISPOSTA: fare la spesa rientra sempre fra le cause giustificative degli spostamenti. Laddove quindi il proprio Comune non disponga di punti vendita o nel caso in cui un Comune contiguo al proprio presenti una disponibilità, anche in termini di maggiore convenienza economica, di punti vendita necessari alle proprie esigenze, lo spostamento è consentito, entro tali limiti, che dovranno essere autocertificati.

Dunque ci si può spostare dal comune in cui si ha la residenza ai comuni confinanti.  Ad esempio per recarsi in un supermercato più grande oppure in un discount, dove si possano trovare gli stessi prodotti ma a prezzi inferiori. È consentito l’attraversamento di un solo confine comunale, a meno che lo spostamento non sia per necessità. E qui l’elenco è decisamente lungo. Da una visita medica, all’acquisto di prodotti ritenuti indispensabili, ad esempio le comuni lampadine, fino all’intervento in una officina autorizzata all’assistenza sulla propria autovettura.

PRIMA NECESSITÀ

Tutto sta nell’interpretare correttamente l’espressione «beni di prima necessità». Le lampadine rientrano in questa categoria di prodotti, una scaffalatura di sicuro no. Un romanzo neppure, ma un testo di scuola sì. Al pari di un modem per sostituire quello in uso che si sia  guastato oppure i pellet per alimentare la stufa.

L’importante è compilare meticolosamente l’autocertificazione indicando nello spazio riservato alla dichiarazione il motivo dello spostamento e il prodotto che si desideri acquistare. Attenzione che non vale la regola «di già che ci sono, oltre alla lampadina acquisto la scaffalatura», visto che resta l’obbligo di spostarsi fuori dal territorio comunale sono per le compere indispensabili.

Questa limitazione genera una serie di situazioni paradossali. Innanzitutto gli abitanti dei piccoli centri, sforniti quasi del tutto di attività commerciali, sono tagliati fuori da numerosi acquisti. A meno che non li facciano su Internet. Contemporaneamente i grandi ipermercati che si trovano quasi sempre in posizione molto decentrata rispetto ai centri urbani maggiori, a mano che non sorgano in un comune confinante con quello più grande, sono condannati a vendere poco o nulla. Ecco perché il governo dovrebbe arricchire l’elenco delle domande con relative risposte, pubblicate sul proprio sito web, inserendo anche queste situazioni.

Riassumendo ecco le tre cose da sapere per evitare di essere sanzionati. Anche perché le multe vanno da 400 a 1.000 euro. Ma se lo spostamento al di fuori del proprio comune avviene in auto o in moto, l’oblazione può aumentare di un terzo, quindi da 532 euro a 1.330 euro.

LE TRE REGOLE D'ORO DEL CASALINGO DI VOGHERA

Spostarsi fuori dal proprio comune solo per i prodotti di prima necessità
Verificare se nei comuni confinanti con il proprio si vende quel che si sta cercando
Compilare l'autocertificazione indicando chiaramente i beni che si vogliono acquistare
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PREZZI

Metano auto fino a 2 euro al kg. Ma non c’è alcun complotto

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Dalla scorsa estate il prezzo alla pompa del metano per auto ha iniziato a salire. Da 0,977 euro  di giugno il prezzo medio (fonte Assogasmetano.it) è salito a 1 euro nel mese di agosto e a 1,244 a settembre. E ad ottobre i rialzi sono proseguiti provocando una situazione inedita per i possessori di auto alimentate a gas naturale: fra un distributore e l’altro i prezzi variano in una forchetta che va da 0,98 fino a 2,04 euro. E sui gruppi social dedicati al tema si è scatenata una vera e proprio gara a chi la sparava più grossa. «Ci vogliono strangolare», scriveva ad esempio Antonietta, «sarà il colpo di grazia. Così ci fanno morire». Chi voglia strangolare i metanautisti non è dato sapere. Ma come in tutte le esplosioni complottiste lanciato il sasso basta poco per provocare lo tsunami a base di dietro9logia.

«È il governo che fa salire i prezzi, ho visto un cartello appeso su una pompa di metano in Emilia. Il gestore ha scritto: “Sono costretto a chiudere dopo che il governo ha aumentato i prezzi del metano”», rispondeva imbufalito Salvatore. Chiosando: «Ecco chi ci vuole morti!», aggiungendo una sequela di aggettivi irriferibili.

NON È IL GOVERNO A FARE I PREZZI

Ma non è finita qui. Antonio, che di mestiere fa il camionista e pare saperla lunga (pare soltanto, però), dice che basta poco per capire come mai il prezzo sia salito così tanto e vi siano differenze enormi da una pompa all’altra. «Chiedete alla Snam. Loro trattano tutto il metano che si vende in Italia. Non possono non saperlo». In realtà si tratta delle solite parole in libertà che alimentano però una marea di bufale, come abbiamo sperimentato in questi mesi con il Covid e i vaccini. Intanto non è il governo a stabilire i prezzi del metano. Nessun governo può farlo in nessun Paese del mondo. Le quotazioni del gas naturale sono il frutto dell’incontro fra domanda e offerta. E siccome la domanda in questi mesi eccede di molto l’offerta i prezzi salgono.

Ma dove salgono? È presto detto: sulle piattaforme internazionali dove si negozia il gas metano. La più importante della quali si trova in Olanda e si chiama TTF, acronimo che sta per Title Transfer Facility ed è l’indice di borsa del gas naturale sul mercato dei Paesi Bassi.

prezzo metano all'ingrosso

Ebbene i contratti negoziati sul TTF si sono impennati. Tantissimo. In un anno il costo di un megawattora equivalente (l’unità di misura utilizzata) è passato dai 15,025 euro del 12 ottobre 2020 ai 116 euro di inizio ottobre 2021, pochi giorni fa. Un rincaro impressionante, pari al 672%. E lo si capisce immediatamente guardando il grafico che pubblico qui sopra.

DA 0,90 A OLTRE 2 EURO AL CHILO. POSSIBILE?

 

Nicol Venura

Nicola Ventura

Spiegato il motivo dei rincari non resta che affrontare l’altra pietra dello scandalo: «Com’è possibile che ci siano differenze di prezzo così grandi?», si chiedeva e mi chiedeva Fabrizio, aiutante di un gestore in Oltrepò. «Non può essere possibile», rincarava, «ci dev’essere per forza sotto qualcosa. Non puoi pagare lo stesso carburante 0,90 al chilo in una pompa e 2 euro in un’altra». E invece è possibile. Tutto dipende dal contratto sottoscritto dall’insegna o dal gestore con i fornitori di metano, come mi spiega Nicola Ventura, autore del sito Ecomotori.net, la bibbia dei metanautisti. «Le differenze di prezzo fra un distributore e l’altro si spiegano con la natura dei contratti», dice, «alcuni gestori hanno stipulato contratti a prezzo fisso con i fornitori di metano e quindi stanno pagandolo a un prezzo concordato in partenza. Altri gestori, invece, hanno sottoscritto contratti indicizzati al valore del gas naturale negoziato sulla piattaforma olandese Ttf. E quindi lo pagano molto di più».

metano prezzi alla pompa

 

LA SNAM NON C’ENTRA NULLA

Dunque nessun complotto. «Secondo i nostri calcoli il prezzo massimo teorico alla pompa dovrebbe attestarsi su 1,80 euro al chilogrammo per il mese di ottobre», aggiunge Ventura, «anche se credo che le quotazioni internazionali del gas naturale siano destinate a sgonfiarsi. Quindi non resta che aspettare per tornare a rifornirsi a prezzi sostenibili per le tasche di chi viaggia a metano».

Dimenticavo: la Snam non c’entra nulla con i prezzi del gas. Gestisce la rete italiana del gas, fatta dei tubi che lo trasportano e realizza anche distributori di metano ma non li gestisce, né vende metano.

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PRODOTTI

Birra senza glutine ma con tanto gusto

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birra scura
Con l’arrivo sul mercato della Stout della Cri del Birrificio Griz, si amplia la famiglia delle scure “gluten free”.

Da qualche tempo vedo sempre più spesso sui banconi di super e ipermercati bottiglie di birra senza glutine. Alcune le ho anche acquistate e bevute e devo dire che non mi sono pentito di averlo fatto. Quasi tutte, con poche eccezioni, sono più che bevibili. Alcune non hanno nulla da invidiare alle bionde e alle scure più apprezzate.

birra La Stout della Cri

La Stout della Cri

La curiosità di capire qualcosa di più su questa nicchia di mercato che però è in rapida espansione, mi è venuta inciampando sulla notizia di una nuova entrata, La Stout della Cri del birrificio Gritz di Erbusco, Brescia, fondato nel 2015 da Claudio Gritti,  è unico birrificio artigianale italiano specializzato nella produzione senza glutine. In questo caso si tratta di una birra scura, una stout appunto, privata del glutine con un processo definito «gluten removed». La nuova etichetta, ispirata a Cristina ‒ una  amica di famiglia dei produttori che ha contribuito, grazie ai suoi consigli, alla crescita del birrificio – identifica una birra scura ad alta fermentazione, di 4,7 gradi. Io non l’ho ancora provata – lo farò appena la trovo in commercio –  ma gli assaggiatori raccontano che i malti tostati spiccano al naso, dando profumi di caffè e un leggero sentore di cioccolato. «Il sapore, accompagnato da un amaro ben bilanciato», fa sapere il produttore, «è deciso e piacevole al palato. La birra presenta un colore tendente al marrone scuro, con una schiuma cremosa e persistente».

IL PROCEDIMENTO

La Birra da Ris

La nuova stout del birrificio di Erbusco viene deglutinata. Segue cioè  il tradizionale processo produttivo e solo alla fine adotta un accorgimento, con l’inserimento di un enzima, che assorbe gran parte di glutine presente. Non si tratta di un dettaglio secondario. Molte delle birre gluten free in commercio, infatti, sono fatte a partire da cereali che non contengono il glutine. Ad esempio il miglio, il riso o il mais. Una delle più famose bionde senza glutine è la Birra da Ris del birrificio svizzero Appenzeller, ma chi se ne intende ci ha segnalato puree la Brewdog Vagabond Pale Ale deglutinata al pari della Stout della Cri. L’elenco delle birre artigianali senza glutine è lungo ma non me la sento di annoiarvi.

Vi segnalo invece, fra le etichette commerciali che si trovanobirre Peroni Perlenbacher Moretti più facilmente nella grande distribuzione le Peroni  e Moretti senza glutine. E pure la Perlembacher Free From glutine che si trova nei punti vendita Lidl. Forse la più conveniente di tutte.

Fra le birre gluten free che ho bevuto di recente ricordo la Theresianer senza glutine che mi ha colpito per la profondità di gusto e la morbidezza. Una lager non filtrata, prodotta dall’etichetta di Martino Zanetti, che conserva i caratteristici aromi di luppolo e lieviti.

Da oggetto del desiderio, quasi introvabile, le birre per celiaci stanno diventando un prodotto reperibile con facilità almeno nei grandi supermercati e negli iper. Per le bionde e le scure artigianali gluten free, invece, è quasi sempre necessario far capo direttamente al produttore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[Foto in evidenza di Luis Wilker Perelo WilkerNet da Pixabay]
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ETICHETTE

L’inganno del tricolore sui cibi importati

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Ecco come riconoscere gli alimenti ottenuti da materie prime in arrivo da ogni parte del mondo, ma spacciati per «italiani».

Molti alimenti realizzati con materie prime importate si fregiano del tricolore sulla confezione. Alcuni, addirittura, scrivono pure: «Made in Italy». I casi sono numerosi, ma i più noti di tutti sono quelli della pasta De Cecco e del prosciutto “alta qualità” Fratelli Beretta. Chiarisco subito un possibile equivoco: per capire come mai sia possibile un’etichettatura del genere ho impiegato io stesso parecchio tempo. I lettori che mi seguono non devono sentirsi minimamente in colpa.

«Una truffa». «Da galera». «Devono partire subito le denunce». «Basta fregature». Questo il tenore dei commenti che raccolgo invariabilmente quando pubblico una confezione di cibo straniero «italianizzato» con la nostra bandiera. Purtroppo non è una truffa. Anzi si tratta di un’etichettatura assolutamente legale.

SPIEGAZIONE DIABOLICA

La spiegazione è diabolica e si deve a quella che definisco la «madre di tutte le fregature» al made in Italy a tavola. A rendere perfettamente legale l’inganno è nientemeno che il Codice Doganale dell’Unione europea che stabilisce tutte le regole applicate al commercio fra i Paesi della Ue e pure le relazioni con gli stati extra europei.

All’articolo 60 (comma 2), intitolato «Acquisizione dell’origine», il Codice Doganale recita:

Le merci alla cui produzione contribuiscono due o più Paesi sono considerate originarie del Paese in cui hanno subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata, effettuata presso un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione.

Attenzione alle definizioni: «ultima trasformazione o lavorazione sostanziale». Mandatele a mente perché è qui che si nasconde l’inghippo.

ALCUNI ESEMPI

Faccio qualche esempio. Un prosciutto di un maiale allevato e macellato in Germania, Olanda o Danimarca, che sia stato stagionato oppure cotto in un salumificio italiano, può scrivere in etichetta «Made in Italy» e mettere il tricolore. È tutto in regola. Tutto perfettamente legale e a norma di regolamenti europei, anche se quel prosciutto non è italiano.

La stessa cosa accade per la pasta ottenuta da grano duro importato, ad esempio dal Canada. Siccome la materia prima, cioè il grano, viene molito in Italia e la farina così ottenuta sottoposta al processo di pastificazione in un impianto situato da noi, la pasta così ottenuta può definirsi «made in Italy» e impiegare elementi che richiamino l’italianità del prodotto: il tricolore sulla vecchia confezione della pasta De Cecco prima che l’Antitrust la obbligasse a rimuovere la bandierina, oppure i trulli, come nel caso della pasta Divella.

tricolore sulla pasta De Cecco

TRICOLORE FUORI LUOGO MA È TUTTO LEGALE

Purtroppo, pur trattandosi di un’etichettatura chiaramente ingannevole sull’origine dell’ingrediente primario, è perfettamente in regola con le disposizioni vigenti introdotte dall’Unione europea. E qui vale la pena di chiarire un altro aspetto che alimenta infiniti equivoci sui social media. La competenza esclusiva per l’etichettatura degli alimenti è dell’Unione europea. Il singolo Paese non può modificare i regolamenti Ue, se non in via sperimentale e per un periodo di tempo limitato. Previa richiesta a Bruxelles. Men che meno un singolo Stato può abrogare le disposizioni contenute nel Codice Doganale europeo che hanno valore di legge e sono immodificabili. Per cambiarle servirebbe un voto del Parlamento europeo che assegni il mandato alla Commissione di intervenire. Si può essere d’accordo o meno con questa cessione di sovranità dei Paesi a vantaggio di Bruxelles (io, ad esempio, sono contrario), ma queste sono le norme esistenti e finché non si cambiano bisogna rispettarle alla lettera.

i trulli di Alberobello sulla pasta Divella, tricolore ma non troppo

INUTILE SCANDALIZZARSI

Dunque è del tutto fuori luogo scandalizzarsi chiedendosi, come vedo fare spesso, perché i nostri politici non facciano nulla. In realtà hanno provato più volte a modificare questo stato di cose, ma la Commissione europea ha bloccato le leggi approvate dal Parlamento italiano, minacciando di aprire procedure d’infrazione con multe miliardarie. Il caso più clamoroso fu quello del Parere circostanziato chiesto dalla Germania alla Commissione e con il quale Bruxelles bocciò la legge Zaia che prevedeva l’etichettatura di filiera (qui e pure qui gli articoli in cui ricostruisco la vicenda).

LA PEZZA PEGGIO DEL BUCO

Ad un certo punto l’Europarlamento si è accorto che l’acquisizione dell’origine prevista del Codice Doganale Ue metteva in gioco un meccanismo diabolico, destinato a ingannare i consumatori. Così assegnò alla Commissione il compito di elaborare un Regolamento di attuazione per porvi rimedio. Purtroppo la pezza è perfino peggio del buco. L’Atto attuativo 775/2018 varato dalla Commissione ha previsto sì la dichiarazione d’origine obbligatoria per molti cibi, ma soltanto nel caso in cui il confezionamento del prodotto evochi – per quel che ci riguarda – un’italianità che non sussiste, nella fattispecie di alimenti realizzati con materie prime straniere. Dunque nel caso della pasta Divella o del prosciutto Fratelli Beretta andrebbe indicata l’origine del grano o della coscia di maiale. Senza però togliere dall’etichetta né il tricolore e nemmeno la dicitura «Made in Italy». I consumatori che non leggessero attentamente l’etichetta non si accorgerebbero mai della vera provenienza di quel che portano a tavola.il tricolore sulla confezione del prosciutto Fratelli BerettaCOSA FARE ALLORA?

I prodotti di cui pubblico le immagini in questo articolo sono tutti ottenuti da materie prime non italiane. La morale è una sola: anziché indignarsi per il tricolore messo a sproposito è consigliabile leggere con la massima attenzione l’etichettatura d’origine che c’è quasi sempre. Sulla pasta è obbligatoria, sui salumi, purtroppo, no. Ove non compaia è meglio acquistare i prodotti che si dichiarano chiaramente 100% italiani.

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