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TAROCCHI e FALSI

Dal finto San Daniele canadese al Parmesan americano, le Dop schiacciate dai doppioni

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È notizia di questi giorni la protesta della Coldiretti per il florilegio di falso made in Italy nelle ricette in gara alle edizioni di Masterchef in Usa e Australia. Dalla «Pasta con mais, erbe e Parmesan» al «Risotto al Parmesan con uovo cotto in camicia» per arrivare a una improbabile «Bruschetta al pomodoro, basilico e Parmesan». Ignoro se ci siano state reazioni da parte degli autori dei programmi. Ben difficilmente l’iniziativa dell’organizzazione guidata da Roberto Moncalvo riuscirà a superare il livello della protesta. Per lo meno negli Stati Uniti, dove le nostre Denominazioni d’origine, le Dop, hanno vita grama. Per ogni formaggio e ogni salume della nostra tradizione alimentare c’è per lo meno una copia locale. Il Parmesan per il Parmigiano Reggiano, l’American Grana per il Grana Padano, il Combozola per il Gorgonzola e via elencando. Gli States si rifiutano anche soltanto di prendere in considerazione le richieste europee di protezione delle indicazioni geografiche. Il negoziato sul TTIP, il Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti si è arenato proprio su questo scoglio.In America c’è un vasto movimento d’opinione che si oppone alle nostre richieste di riconoscimento e ha nel Consortium for Common Food Names il punto di riferimento. È una vicenda che ho già trattato ampiamente su Italia in Prima Pagina, il blog da cui è nato questo che state leggendo. Ma che merita di essere contestualizzata nello scontro in atto a livello mondiale sulla tutela di marchi, brevetti e denominazioni.

IL CASO DEL SAN DANIELE TAROCCO

Per capire quanto siano relativi nel commercio internazionale i concetti di «ragione» e «torto» basta guardare cos’è accaduto con uno dei più clamorosi tarocchi in circolazione, il prosciutto San Daniele fatto a Brampton, in Canada, dalla Mastro, già Santa Maria Food che dichiara di produrre dal 1986 «autentici salumi italiani». Come recita la descrizione pubblicata sul sito internet della società. E incidentalmente il riconoscimento della Dop al vero San Daniele risale al 1996, mentre il sistema delle Denominazioni d’origine europee venne istituito dalla Cee nel ’92.

Nonostante un lungo negoziato centrato proprio sulla tutela delle Dop, l’Europa ha firmato un accordo di libero scambio col Canada che non solo lascia sopravvivere i tarocchi locali, ma riconosce di fatto un principio potenzialmente distruttivo per le nostre indicazioni geografiche: in presenza di un marchio registrato, e il San Daniele Ham lo riporta ben chiaro nel logo come si vede nell’immagine che pubblico qui sotto, il brevetto prevale sulla denominazione d’origine. In pratica vince il tarocco. Notare il nastro tricolore che avvolge il marchio sulla vaschetta. A parte la scritta «jambon ham» (che poi vuol dire prosciutto in francese ed in inglese) la confezione avrebbe potuto tranquillamente ingannare pure un consumatore italiano.

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Per completare l’opera i negoziatori europei hanno accettato che in Canada si possano vendere prodotti locali già esistenti con lo stesso nome dei nostri. Accompagnato dall’origine: ad esempio Asiago canadese. E ne potranno pure arrivare di nuovi, sempre made in Canada, che entreranno in commercio con la denominazione «imitazione Asiago», «stile Asiago», «tipo Asiago». Nel caso del Parmigiano e alimenti simili, i produttori canadesi potranno utilizzare traduzioni inglesi o francesi dei nomi italiani come il «Parmesan». Hai voglia a protestare se Masterchef lo utilizza nelle ricette in gara: il Trattato Transatlantico si firmerà probabilmente con norme fotocopia per l’alimentare.

 GLI USA NON RICONOSCONO LA PROPRIETA’ INTELLETTUALE A TAVOLA

Ma c’è dell’altro. Gli Stati Uniti, attraverso l’onnipresente Consorzio per i nomi comuni alimentari, contestano anche l’accordo di Lisbona, ratificato da 30 Paesi, sotto l’ombrello della Ompi, l’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale. Il negoziato sulle indicazioni d’origine si svolge, tanto per cambiare, a porte chiuse e  prelude a un’allentamento dei vincoli previsti per le Dop, che non godrebbero più implicitamente di una protezione paragonabile a quella dei brevetti. Ma questo allentamento, ai produttori Usa evidentemente non basta, visto che hanno scatenato una campagna mediatica contro il nuovo accordo di Lisbona. Agli americani non è sufficiente affermare la prevalenza del brevetto sull’indicazione geografica. Dalla Feta alla Fontina, fino al Munster, vogliono avere le mani libere per continuare a imitare le specialità della tradizione alimentare europea.

ESITO SCONTATO PER IL MATCH FRA DOP E DOPPIONI

Se queste sono le premesse, il finale di partita tra Dop e doppioni è già scritto: vinceranno i tarocchi. E attraverso la breccia americana proveranno sicuramente a infilarsi pure i cinesi che fra l’altro sono i campioni mondiali dei brevetti. Nei 2014 l’Ufficio statale della proprietà intellettuale di Pechino ha accettato ben 928mila richieste di brevetto, con una crescita del 12,5%. Insomma, nell’ex Celeste Impero stanno brevettando tutto tranne l’aria che si respira. E c’è da scommettere che quando si aprirà il tavolo negoziale con l’Europa sul riconoscimento delle indicazioni d’origine, la Cina sarà pronta a calare l’asso della proprietà intellettuale. È già accaduto infinite volte. Di recente alla Apple che ha dovuto comprarsi per la modica cifra di 60 milioni di dollari il marchio iPad, registrato in Cina nel 2000 e intestato alla Proview Technology. Quante delle nostre indicazioni geografiche saranno già depositate nel Paese del Dragone? E da quanto tempo?
Chiusa la partita commerciale con il gigante rosso, dovremo comunque riaprire quella congelata da tempo col Mercosur, il mercato comune del Sudamerica. Che non scherza quanto a imitazioni: dal Parmesao (Brasile) al Regianito (Argentina) ci sono centinaia di prodotti appartenenti all’italian sounding.

Nel frattempo possiamo consolarci con la constatazione che, almeno per ora, i tarocchi non sono arrivati sui banconi dei nostri supermercati. Ma quanto potrà durare?

 

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FATTI

Oltrepò pavese: un’altra maxi truffa sul vino

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Scoperta nel cuore dell’Oltrepò pavese una frode con cui si sarebbe spacciato vino contraffatto per vino bio, Doc e Igt. Nel mirino la Cantina Sociale di Canneto.

Ci risiamo, dopo la spinosa questione del Pinot Grigio che aveva coinvolto qualche anno fa la Cantina di Broni, si abbatte sull’Oltrepò pavese un’altra tegola. A finire nel mirino di Carabinieri e Guardia di Finanza questa volta è la Cantina Sociale di Canneto Pavese. L’inchiesta, coordinata dalla Procura di Pavia, riguarda un nuovo presunto scandalo sul vino contraffatto ed è sfociata questa mattina con l’esecuzione di sette misure cautelari, delle quali cinque ai domiciliari e due con l’obbligo di firma. Le persone coinvolte sarebbero ritenute responsabili a vario titolo e in concorso tra loro di associazione a delinquere finalizzata alla frode in commercio e contraffazione di indicazioni geografiche o denominazione di origine di prodotti alimentari. Una tegola di quelle che fanno male sulla testa di uno dei principali territori del vino in Italia già lacerato al suo interno da una lotta fratricida che vede su fronti contrapposti il Consorzio Vino Oltrepò Pavese da un lato e il  Distretto dell’Oltrepò Pavese dall’altro.

Secondo gli inquirenti, gli arrestati avrebbero spacciato per Doc e Igt vini di qualità inferiore, prodotti con uve non certificate come biologiche o addizionati con aromi o anidride carbonica.

Al centro dell’indagine, partita anche grazie alla segnalazione di altri viticoltori della zona, figurano in particolare i vertici della Cantina Sociale di Canneto Pavese che, con la complicità di enologi di fiducia, avrebbero messo in commercio vino contraffatto per quantità, qualità e origine attraverso un complicato quanto diabolico sistema di alterazione.

Le attività delle indagini, partite nel settembre 2018, hanno evidenziato un consistente “ammanco di cantina”, ovvero una differenza tra la quantità di vino etichettabile con denominazioni pregiate e l’effettiva disponibilità nelle cantine del medesimo vino. La quota mancante sarebbe stata sostituita con vino di qualità inferiore, alterato e venduto poi come Doc e Igt dell’Oltrepò Pavese, per un giro d’affari che ha sfiorato il milione di euro e oltre 1 milione 200 mila litri di vino contraffatto. Con l’aggiunta di profumi specifici ricostruiti attraverso lo zucchero invertito (un mix di glucosio e fruttosio in parti uguali con tracce più o meno importanti di saccarosio, di anidride carbonica, aromi e mosto rettificato) , tutti prodotti vietati dalla normativa, si è riusciti a conferire al vino sentori molto simili a quelli dei vini oltrepadani.

Secondo Mario Venditti, procuratore aggiunto di Pavia che sta seguendo le indagini, rispetto a fatti del recente passato che hanno coinvolto aziende del territorio che vendevano come Pinot vini di altra natura, nella vicenda attuale c’è qualcosa in più, c’è il miracolo dell’acqua trasformata in vino. “Dispiace che l’Oltrepò pavese, una zona vocata alla produzione di vini di pregio, sia ridotta in questo stato”, ha detto Venditti.

Ma le indagini non hanno riguardato solo il territorio oltrepadano. Oggi sono state effettuate perquisizioni in altre zone della Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna e Trentino Alto Adige.

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TAROCCHI e FALSI

Spunta il Parmigiano Magiaro. Le 5 domande che aspettano una risposta

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Dante Bigi

Dante Bigi

Parmigiano Magiaro. Ungherese. La denominazione di vendita è «Formaggio a pasta dura stagionato», la marca Il Magiaro, con una ulteriore classificazione: «Gran selezione». Un tarocco come tanti, del Grana Padano o addirittura del Parmigiano Reggiano. Una fra le innumerevoli imitazioni che affollano i banconi dei supermercati italiani e cannibalizzano gli originali. In questo caso però c’è di più. Il formaggio arriva dall’Ungheria, ma a confezionarlo e commercializzarlo è un grande caseificio italiano, assurto agli onori delle cronache per essere stato acquisito dalla multinazionale francese Lactalis. Si tratta della Nuova Castelli di Reggio Emilia, il maggior esportatore di Parmigiano Reggiano Dop. Il fondatore, Dante Bigi, l’aveva ceduta nel 2014 al fondo inglese Charterhouse dopo essere stato raggiunto da un avviso di garanzia per un’inchiesta su una presunta frode alimentare. Gli inglesi hanno monetizzato l’investimento la scorsa primavera, rivendendola al colosso controllato dalla famiglia Besnier.

Ora spunta questa novità, il Parmigiano Magiaro. Sinceramente non saprei dirvi se la commercializzazione del tarocco sia precedente o successiva all’arrivo della nuova proprietà. Ma poco importa: conta quel che sta accadendo ora.

NIENTE LISOZIMA NEL PARMIGIANO MAGIARO?

Parmigiano Magiaro

La scritta «Senza conservanti»

Fra l’altro quella scritta «Senza conservanti» che compare nella parte anteriore della confezione fa assomigliare dannatamente il tarocco al Parmigiano Reggiano piuttosto che al Grana Padano. I due formaggi, infatti, si differenziano fra l’altro per l’utilizzo da parte del Padano del lisozima, un «coadiuvate alimentare» o «conservante» attorno al quale si è sviluppata una lunga e stucchevole polemica fra i due consorzi di tutela. Per quel che ci riguarda, comunque, il Parmigiano non lo utilizza, mentre per il Grana è indispensabile. Questione di alimentazione delle bovine da cui proviene il latte delle due filiere: mentre le vacche del Reggiano sono alimentare esclusivamente con il foraggio, quelle del Padano mangiano, anche se non soprattutto, l’insilato di mais, ma il formaggio ottenuto da questo latte genera la cosiddetta fermentazione anomala, che porta le forme a gonfiarsi e ad esplodere. Il lisozima impedisce che questo avvenga. Il dettaglio non è irrilevante. Per taroccare il Parmigiano Reggiano bisogna caseificare latte di bovine alimentate esclusivamente col fieno.

CINQUE QUESTIONI DA CHIARIRE

Fino a questo punto ho cercato di capire cosa possa esserci dentro la confezione. Ma le domande da porsi sul Parmigiano Magiaro sono altre. E attendono una risposta urgente.

  1. Chi produce «Il Magiaro Gran Selezione» in Ungheria? Si tratta di un’azienda locale? Oppure di un operatore italiano, magari esterovestito? O di una joint venture mista italo-ungherese?
  2. Da dove arrivano i casari? Per taroccare il Parmigiano Reggiano serve l’attrezzatura ma soprattutto servono dei casari esperti, che l’abbiano fatto per anni. Sono stati inviati in Ungheria dal loro datore di lavoro italiano? E in questo caso, a quale titolo? Oppure li ha assunti un’azienda magiara?
  3. Filiera copiata: da chi? Possibile che esista al di fuori dall’Italia, una filiera simile se non del tutto uguale a quella del Parmigiano Reggiano. E se fosse così, chi l’ha allestita? Qualche produttore italiano? Con quale finalità?
  4. Per caso oltre ai formaggi arriva anche il latte col quale sono fatti? Non c’è il rischio che questa materia prima finisca nella filiera della Dop, visto che è così simile a quella del Reggiano?
  5. E i consorzi di tutela delle due Dop non hanno nulla da dire? Anziché pretendere che siano le catene della distribuzione a separare i cloni dagli originali, possibile che il Consorzio del Grana Padano e quello del Parmigiano Reggiano, non si siano posti le stesse domande che mi sono fatto io?

Non mi aspetto che qualcuno in particolare risponda ai miei interrogativi. Sono anni che punzecchio i consorzi di tutela delle Dop senza risultato. Anche se per legge spettano loro compiti di vigilanza sulla filiera la mia impressione è che siano propensi soprattutto a nascondere la polvere sotto il tappeto. Salvo poi indignarsi quando scoppia uno scandalo. Io però non demordo.

 

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SPESA

Le 7 cose da sapere per non portare a tavola il falso extravergine

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Vino, carne e olio: dopo gli scandali che hanno colpito alcune fra le eccellenze del made in Italy a tavola, la fiducia dei consumatori rischia di incrinarsi definitivamente. L’indagine avviata a Torino dal pm Guariniello – e poi riassegnata alle procure di Genova, Firenze, Spoleto e Velletri – ha assestato un duro colpo alla credibilità dell’ex oro verde. Non voglio unirmi al coro che ha inondato il web sulla vicenda. Mi limito a elencare le marche finite sotto inchiesta: Bertolli, Carapelli, Sasso, Primadonna, Antica Badia, Coricelli, Santa Sabina. Le ipotesi accusatorie sono due: aver spacciato per extravergine un prodotto che non lo è e aver dichiarato in etichetta l’origine comunitaria, quando la materia prima arrivava in parte da Tunisia e Turchia. Per ora sospendo il giudizio, in attesa che gli inquirenti facciano chiarezza sugli addebiti contestati ai produttori. Mi limito a rilevare che rispetto a un paio d’anni or sono i marchi più diffusi hanno aumentato considerevolmente i prezzi di vendita al pubblico. Quindi qualcosa è cambiato. Ma di questo mi occuperò presto su Italiainprimapagina.it. Qui voglio trasferire ai lettori alcune delle scoperte fatte dal Casalingo di Voghera, per orientarsi nella giungla di etichette e confezioni. Le ho condensate i sette punti. Le 7 cose da sapere per non mettere nel carrello l’extravergine tarocco. Eccole.

Le 7 regole olio extravergine

ETICHETTE

In base alle ultime modifiche regolamentari accolte dalla Commissione europea, l’origine dell’olio extravergine deve comparire nello stesso campo visivo della marca e della denominazione di vendita. Quindi nel fronte dell’etichetta. Si tratta di una novità importante che può essere risolutiva per capire cosa si sta comperando. Ove la materia prima sia nazionale, compare di solito la classificazione: «100% italiano». In alternativa: «Ottenuto da oli extravergini originari dell’Unione europea», oppure: «Miscela di oli di oliva originari dell’Unione europea e non originari dell’Unione europea».

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MARCA

Brand italiano non significa assolutamente che il prodotto sia nazionale. Né garantisce nulla sulla qualità intrinseca dell’olio, come dimostra l’ultimo scandalo dell’extravergine che non era extravergine. Gli elementi per decidere quale prodotto acquistare sono altri e per di più vanno combinati assieme.

MADE IN ITALY

La dicitura made in Italy di per sé non garantisce niente. Va tradotta liberamente con: «lavorato in Italia». Non significa che l’olio sia nazionale e tantomeno che si tratti di un prodotto di qualità. Fra l’altro il ragionamento è valido anche in attività produttive diverse dall’alimentare, i tessuti e le calzature ad esempio.

DOP & IGP

Per andare sul sicuro si possono acquistare gli extravergine Dop, vale a dire a Denominazione d’origine protetta, oppure Igp (Indicazione geografica protetta). In tutto sono 43, dei quali 42 Dop e una Igp, l’Olio Toscano. In genere questi prodotti hanno un prezzo di vendita superiore agli altri extravergine, ma offrono caratteristiche organolettiche uniche. Si pagano di più, a fronte però di una qualità superiore e dell’unicità che deriva dal loro legame con i territori di produzione, regolato da rigidi disciplinari.

PREZZI

Sui prezzi bisognerebbe scrivere un trattato. Per non annoiare i lettori mi limito a fornire un consiglio valido sempre: in presenza di valori bassi, vale la pena di consultare i listini pubblicati regolarmente e aggiornati con cadenza settimanale da Ismea e Unaprol. È possibile verificare anche le quotazioni internazionali oltre a quelle praticate sulle maggiori piazze italiane. Ove il prezzo al litro dell’olio fosse inferiore a quello all’ingrosso registrato sui mercati internazionali, quello che state acquistando non è extravergine, a meno che non si tratti di un’offerta «sotto costo» che però, in genere, è segnalata come tale.

BANCONI

Occhio alla disposizione delle bottiglie sui banconi dei supermercati. Può accadere che l’olio tarocco sia mischiato a quello italiano e il vergine o il semplice olio d’oliva si trovi assieme all’extravergine. In questo caso non sempre è d’aiuto il prezzo: alcuni player offrono prodotti «ben vestiti», con confezioni accattivanti e tali da richiamare una qualità superiore del contenuto. Non lasciatevi ingannare e leggete con la massima attenzione l’etichetta.

CERTIFICAZIONI

Infine le certificazioni. Ce ne sono di tutti i tipi e possono riguardare sia la qualità o l’origine del prodotto in sé, sia il sistema utilizzato da produttore. In quest’ultimo caso non garantiscono praticamente nulla sull’olio. A volte, per scoprirlo, è necessario fare un’indagine sul web e parlare con l’ente certificatore. Se avete dei dubbi, in questo caso come in altri, non esitate a scrivermi alla casella di posta elettronica attilio.barbieri@ilcasalingodivoghera.it.

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