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Chicchi tricolori e marchi di fantasia: com’è difficile scegliere il riso italiano

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Chicchi tricolori, marchi di fantasia, scudetti, bollini d’origine: com’è difficile scegliere il riso italiano! Sono esattamente quattro anni che mi diverto a censire i prodotti made in Italy, distinguendoli dei finti e dai falsi. Mai però mi era capitato di imbattermi in una tale selva di simboli e dichiarazioni d’origine diverse. Fortunatamente il riso d’importazione che arriva sulle nostre tavole è relativamente poco: i flussi in entrata dall’Estremo Oriente, provenienti soprattutto da Birmania e Cambogia, sono di Indica, un riso a chicco lungo e stretto che da noi si usa pochissimo. In Italia siamo abituati a mangiare quasi esclusivamente riso Japonica con i chicchi tozzi e molto più corti. 

Il riso Indica a chicco lungo. Sopra la varietà Japonica

Il riso Indica a chicco lungo. Sopra la varietà Japonica

La casalinga di Voghera, anzi, il Casalingo di Voghera, però, è alla ricerca dei cibi italiani e non si sottrae certo alla tentazione di leggere attentamente l’etichetta. Privilegiando i prodotti più trasparenti. Quelli di cui è possibile individuare chiaramente il Paese d’origine e lo stabilimento di confezione. Con il riso, anche se quello straniero è relativamente poco, è maledettamente difficile capire da dove arrivi. Innanzitutto perché i simboli grafici utilizzati per identificarne l’origine sono a di poco eterogenei. Assieme alla dichiarazione generica «riso italiano», a volte associata al tricolore altre volte no, compaiono numerosi loghi. Uno diverso dall’altro. C’è innanzitutto quello dell’Ente Nazionale Risi: tre chicchi parzialmente sovrapposti, uno verde, il secondo bianco e il terzo rosso, nella sequenza della bandiera, accompagnati dalla scritta “Riso italiano”. Poi ci sono altri loghi che utilizzano il medesimo soggetto, il chicco del cereale bianco, ma lo interpretano diversamente, colorando col tricolore la singola cariosside. È il caso, ad esempio della Scotti. E non è finita: ci sono anche produttori che appongono il marchio “100% riso italiano”, accompagnato da un nastro tricolore, come la Coop ad esempio. Un simbolo che secondo l’Unione europea è fuori legge perché indica la cosiddetta «origine preferenziale».

L’insieme di questi loghi finisce per disorientare il consumatore che non sa più quale attesti veramente l’origine. Al Casalingo di Voghera viene anche un sospetto: se alcuni produttori indicano l’origine italiana del prodotto, nelle confezioni che non la riportano ci sarà per caso riso d’importazione? Chissà. Il dubbio rimane.

prezzi-punteggi-risoComplessivamente ho recensito 34 confezioni diverse di cereale bianco, acquistate presso i supermercati di Voghera, Coop, Esselunga, Gulliver, Iper. E le ho classificate in base a una matrice destinata a valutare quattro elementi essenziali dell’etichetta: leggibilità, trasparenza, rintracciabilità del produttore e tracciabilità del prodotto. Per ogni fattore di valutazione ho poi stabilito un punteggio. Da 0 a 2 per la leggibilità, da -1 a +2 per la trasparenza, da 0 a 3 per la rintracciabilità, da 0 a 3 per la tracciabilità. Alla fine ho messo in fila le 34 confezioni, classificandole in base ai punteggi ottenuti con le valutazioni della matrice. Qui sopra potete vedere il risultato.

Per rendere più leggibile la tabella ho attribuito a ciascun prodotto un punteggio (rating) da 0 a 5. Nello slideshow che compare in fondo alla pagina potete vedere il risultato. A punteggio pieno, con 5 stelle su 5, c’è solo il Riso Carnaroli marca Voi, Valori Origine Italia, un cobranding tra Coldiretti e Iper. Il riso Voi, oltre ad avere la certificazione di prodotto Csqa, riporta sulla confezione perfino il nome dell’agricoltore che ha seminato e raccolto il riso contenuto nella confezione. Nel caso della scatola che ho acquistato si tratta di Gianandrea Sala.

Il Riso Voi sarà il primo a entrare nella speciale sezione del sito “Scelti dal Casalingo di Voghera”, dove recensirò i prodotti di qualità e origine sicura, riconoscibili come italiani dai consumatori.

Nello slideshow in fondo alla pagina trovate tutte le elaborazioni.

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Sentenza Ue: il gallo del Chianti non si può imitare

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bottiglie di Chianti Classico

Il gallo del Chianti è salvo. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha deciso con una sentenza storica che il simbolo del vino più noto d’Italia non può essere utilizzato sull’etichetta di altre bottiglie dal momento che rappresenta un «carattere distintivo intrinseco del marchio Chianti». Confermato il parere dell’Ufficio Ue per la proprietà intellettuale (Euipo) che aveva negato la registrazione del simbolo del gallo alla Berebene Srl.

logo gallo Berebene

Il gallo Berebene

Ad opporsi alla richiesta di registrazione avanzata dalla Berebene era stato il Consorzio di tutela del Chianti Classico ottenendo  una pronuncia favorevole da parte dell’Euipo. Ma la Berebene aveva presentato ricorso alla Corte di giustizia Ue. Ieri il verdetto.

Durissime le motivazioni della sentenza (qui il link). I giudici di Strasburgo sottolineano l’esigenza «al di là del grado di somiglianza tra i due segni, di evitare fenomeni di parassitismo commerciale. Infatti, vista l’elevata notorietà e il carattere distintivo intrinseco del marchio Chianti, il fatto di utilizzare un segno avente una certa somiglianza con esso proprio per dei vini presenta un rischio concreto che il pubblico di riferimento associ l’immagine del gallo del marchio della Berebene ai vini Chianti». E in effetti i due simboli, a parte il soggetto, si assomigliano poco. Ma la Corte Ue ha stabilito che nei consumatori si logo Chianti Classicosarebbe potuta ingenerare lo stesso confusione.

Una decisione che ribalta di fatto alcune sentenze dannose per il made in Italy a tavola. Come quella che autorizzava un’azienda agricola belga a mettere in vendita pomodori “San Marzano”, con una evocazione clamorosa ai danni della Dop Pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese Nocerino.

Vale la pena di segnalare che la Berebene Srl ha sede a Roma e francamente fa specie che una società italiana pensi di poter registrare un marchio contenente il simbolo di un vino di grande tradizione come il Chianti. I nostri prodotti – proprio a cominciare dai vini –  sono già oggetto di falsificazioni in tutto il mondo da parte di taroccatori fin troppo agguerriti. Quando le imitazioni arrivano da casa nostra sono ancora meno scusabili.

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Scoppia la guerra del pomodoro pelato

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pomodoro pelato

Puglia contro Campania: scoppia la guerra del pomodoro pelato. Dopo lo scontro sulla Mozzarella di Gioia del Colle Dop le due regioni arrivano nuovamente ai ferri corti. Questa volta per la solanacea rossa lavorata e inscatolata. A scatenare lo scontro è stata la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il 13 marzo 2021,  della richiesta di riconoscimento del Pomodoro pelato di Napoli Igp. La pratica ha già avuto il via libera dal nostro Ministero delle Politiche agricole. Ora manca soltanto l’imprimatur della Ue. Ma si tratta, a questo punto, di un passaggio formale.

Donato Pentassuglia pomodoro pelato

Donato Pentassuglia

Ai produttori pugliesi, però, non sta bene. L’assessore pugliese all’Agricoltura Donato Pentassuglia ha annunciato che la Regione si opporrà al riconoscimento. «Ci sono sessanta giorni di tempo per farlo e abbiamo quasi istruito il fascicolo», ha puntualizzato. Il motivo? Secondo i pugliesi il 90% della produzione di pelato si concentra nella provincia di Foggia. Dunque, a rigor di logica, l’Indicazione geografica protetta spetterebbe al pomodoro foggiano. Una diatriba che si trascina da almeno quattro anni ed è esplosa quando il testo con il placet del ministero è finito sulla Gazzetta Ufficiale. Ma siamo soltanto all’inizio.

IN CAMPO L’ASSOCIAZIONE CONSERVE VEGETALI

Antonio Ferraioli

Antonio Ferraioli

Sulla questione è intervenuto anche Antonio Ferraioli, presidente dell’ Anicav (Associazione nazionale industriali conserve vegetali), nata a Napoli nel 1945. «Riteniamo sia giusto fare chiarezza», ha fatto  sapere in una nota, «perché l’Indicazione geografica protetta, come si evince molto chiaramente dal disciplinare di produzione, non riguarda assolutamente la materia prima ma il prodotto trasformato, appunto il pomodoro “pelato”. Per questo motivo non si fa alcun riferimento alla provenienza del pomodoro fresco, che tutti sanno venire per la maggior parte dalla Puglia». Fra l’altro l’Igp non lega indissolubilmente l’alimento alla zona di produzione della materia prima, come accade ad esempio per Bresaola della Valtellina e Speck dell’Alto Adige che possono essere fatti a partire da carne proveniente dai cinque continenti.

Per le Dop (Denominazioni d’origine protette) devono sussistere  tre condizioni irrinunciabili:  origine del prodotto, ricetta tradizionale e luogo di trasformazione in una zona ben definita. Per le Igp bastano due di queste tre condizioni. E nel caso del Pomodoro pelato di Napoli Igp le due condizioni sono la ricetta tradizionale e il luogo di trasformazione.

TRASFORMAZIONE E MATERIE PRIME

Semmai si potrebbe discutere sul fatto che il Pomodoro pelato di Napoli Igp, da disciplinare  (qui il link), si possa produrre non soltanto nel Napoletano, ma nel «territorio amministrativo delle Regioni Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise e Puglia». Così, l’impianto di lavorazione e confezionamento potrebbe trovarsi, addirittura, in provincia di Teramo, pur sfornando il Pelato di Napoli. Ma non si tratterebbe  del primo e nemmeno dell’unico caso.

Il Prosciutto di Parma Dop, ad esempio, prevede che la zona tipica di produzione «comprenda il territorio della provincia di Parma posto a sud della via Emilia a distanza da questa non inferiore a cinque chilometri, fino ad una altitudine non superiore a 900 metri, delimitato ad est dal corso del fiume Enza e ad ovest dal corso del torrente Stirone». Dunque il vincolo dei salumifici al territorio è molto stringente. Ma il Parma Dop si può fare a partire da cosce di suini nati, allevati e macellati in Italia, provenienti però da 10 regioni italiane: Emilia- Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte, Molise, Umbria, Toscana, Marche, Abruzzo e Lazio (qui il link).

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Com’è difficile capire cosa siano le Dop e le Igp

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Dop e Igp sono le sigle che individuano i prodotti alimentari legati ai territori e alle tradizioni che questi luoghi esprimono. Un cibo a Denominazione d’origine protetta, Dop in sigla, deve rispettare tre caratteristiche:

  1. essere fatto sulla base di una ricetta tradizionale comprovata, consolidata nel tempo e strettamente legata ai luoghi in cui viene prodotto;
  2. utilizzare soltanto materie prime italiane provenienti dalle zone rigorosamente fissate dal disciplinare di produzione (spiego fra poco cosa sia il disciplinare):
  3. il luogo di produzione o trasformazione si trovi in Italia, in una zona fissata sempre dal disciplinare, solitamente uno o più comuni limitrofi

Gli alimenti a Indicazione geografica protetta, invece, devono rispettare due di queste tre condizioni. E se si eccettuano le Igp vegetali – ad esempio il Cappero di Pantelleria o la Cipolla Rossa di Tropea – di solito le due caratteristiche rispettate sono:

  1. ricetta tradizionale comprovata;
  2. luogo di produzione o trasformazione in Italia (ma non potrebbe essere diversamente).

La materia prima utilizzata nelle Igp, invece, non è necessariamente italiana e può arrivare da ogni parte del mondo., come avviene per esempio per la Bresaola della Valtellina Igp, lo Speck dell’Alto Adige Igp e la Mortadella di Bologna Igp.

Poi esistono pure le Stg (Specialità tradizionali garantite) che sono delle Igp ancora meno legate al territorio e devono in sostanza rispettare la ricetta. In tutto sono tre: mozzarella, pizza napoletana e amatriciana tradizionale.

Ecco, comunque, i tre bollini che identificano quelle che nel gergo tecnico si definiscono «indicazioni geografiche».

bollini Dop Igp Stg

Ecco i bollini di Dop, Igp ed Stg

Per semplificare, dunque. le Dop devono rispettare tre condizioni su tre, le Igp soltanto due su tre e le Stg appena una. Ma questa semplificazione è mia e vi confesso che ho impiegato anni a elaborarla nella maniera che vi ho appena esposto. Qualora un consumatore volesse approfondire sulle fonti ufficiali cosa siano Dop, Igp ed Stg ben difficilmente ci capirebbe qualcosa. Faccio alcuni esempi.

ORIGIN ITALIA

L’associazione dei consorzi di tutela delle indicazioni geografiche, Origin Italia, se la cava pubblicando sul proprio sito le definizioni ufficiali prese dal regolamento Ue 1151/2012 che paiono scritte, però, per non farsi capire. Eccole.

Con la dicitura DOP Denominazione di Origine Protetta si intende:
“il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: originario in tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese le cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani, e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nella zona geografica delimitata”.

Con la dicitura IGP Indicazione di Origine Protetta si intende:
“il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: come originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e del quale una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possono essere attribuite a tale origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell’area geografica determinata”.

Sfido chiunque a capire quali meccanismi mettano in gioco queste definizioni. Fattori naturali e umani? Qualità? Reputazione? Di cosa si parla? E nulla sulla materia prima.

IL MIO CIBO, LA TUA CONFUSIONE

Non va meglio con il sito ilmiocibo.it, iniziativa per altro lodevole, frutto di una collaborazione fra Fondazione Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura (Coldiretti) e Ministero della Salute. Nella pagina dedicata a Dop, Igp ed Stg compare infatti una infografica che ricalca purtroppo l’impostazione europea. Eccola.

 

infografica Dop Igp Stg

L’infografica che compare sul sito ilmiocibo.it

Certo, si parla di «legame (più forte nella Dop e meno forte nella igp) tra prodotto e territorio», ma quale sia questo legame non è per nulla chiaro.

TOPPA ANCHE WIKIPEDIA

Perfino Wikipedia non fa meglio e scimmiotta le definizioni comprese nel Regolamento Ue 1151/2012. Ecco cosa scrive a proposito della Dop:

L’ambiente geografico [a cui sono legate le Dop, ndA] comprende sia fattori naturali (clima, caratteristiche ambientali), sia fattori umani (tecniche di produzione tramandate nel tempo, artigianalità, savoir-faire) che, combinati insieme, consentono di ottenere un prodotto inimitabile al di fuori di una determinata zona produttiva.

E la materia prima? Per le Dop è dirimente e come abbiamo visto la sua provenienza è la caratteristica che le differenzia dalle Igp. Pure in questo caso sfido chiunque a capire fino in fondo le differenze fra le indicazioni geografiche descritte.

L’INFOGRAFICA DEL CASALINGO DI VOGHERA

Per semplificare la vita ai miei lettori ho realizzato una infografica per riassumere schematicamente il meccanismo delle tre caratteristiche il cui rispetto totale o parziale differenzia le tre indicazioni geografiche. Eccola.

differenze Dop Igp Stg

L’infografica del Casalingo di Voghera su Dop, Igp, Stg

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