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Bresaola della Valtellina: parte l’operazione trasparenza. Ma non troppo

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«Gli italiani e la Bresaola della Valtellina Igp»: il tema è molto interessante, soprattutto per chi, come il sottoscritto, cerca di capire da anni con quali carni venga prodotta la Bresaola. L’invito che ho ricevuto dal Consorzio di tutela prometteva bene. «Ci vediamo al Four Season alle 11,30», mi scriveva Matteo, un noto pierre che cura fra l’altro la comunicazione dell’organismo valtellinese, «per parlare di qualità, origine e trasparenza con i produttori e il Consorzio di tutela; presentare una campagna di informazione sulle materie prime; scoprire il gradimento e la conoscenza degli italiani sulla Bresaola della Valtellina grazie a una ricerca Doxa».

Chiarisco un concetto che spiega il mio interesse quasi morboso per l’evento che si è svolto a Milano, mercoledì 22 giugno 2016. Fino ad allora parlare di origine della carne utilizzata dai salumifici della Valtellina per produrre la Bresaola, era un po’ come bestemmiare in chiesa. Non si poteva fare. Non era permesso. I temerari che si sono avventurati negli anni su questo terreno hanno scoperto a loro spese quanto fosse impervio.

L’origine non preoccupa i consumatori

Così l’operazione trasparenza lanciata dal Consorzio, fatte le debite proporzioni, assomigliava molto da vicino al ritrovamento dei papiri del Mar Morto. Le sacre pergamene sull’origine della carne sarebbero state disvelate. Ma la scoperta che ho fatto ha il sapore amaro della delusione. Già, perché la maggior preoccupazione dei convenuti, validamente assistiti da un ricercatore della Doxa, era quella di convincere i giornalisti che la provenienza della materia prima è l’ultima delle preoccupazioni dei consumatori italiani. Ecco, in breve, quanto si ricava dalla ricerca condotta dalla Doxa su un campione di 1000 intervistati.

Per il 74% degli italiani sapere che la Bresaola della Valtellina IGP è spesso prodotta con carne bovina pregiata importata dall’estero non è motivo per cambiare abitudini d’acquisto (anzi per un 7% è motivo per consumarla di più).

Quello che fa una carne di qualità, infatti, non è tanto la provenienza quanto piuttosto il sistema di allevamento (lo afferma il 51% degli italiani rispetto al 28% che ritiene che l’origine italiana della carne sia di per sé garanzia di qualità)

C’è anche la carne di zebù

La maggiore preoccupazione del Consorzio guidato da Mario Della Porta, dunque, non è quella di squarciare il velo sull’origine Italiani e bresaola_infografica_RRdelle carni impiegate per la Bresaola, ma di convincermi che gli elementi su cui i consumatori si concentrano e che influenzano le loro scelte sono altri. E non è un caso se dopo oltre un’ora di storytelling su quanto sia buono, sicuro e imperdibile il salume valtellinese, mi resta un dubbio atroce: da dove viene la carne? Domanda che giro prontamente ai relatori, visto che fino ad allora si era parlato di tre «Paesi» d’origine: Irlanda, Francia e Sudamerica. Sudamerica? Ma non è un subcontinente? E finalmente Claudio Palladi, amministratore delegato del salumificio Rigamonti spiega: «Noi consideriamo l’America del Sud un distretto omogeneo… Per la precisione la carne, inclusa quella di zebù, arriva da Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay».

A quel punto dell’evento «epocale» mi viene un dubbio: l’indicazione d’origine finirà in etichetta? In fin dei conti ben 7 italiani su 10, per ammissione della stessa Doxa (si veda l’infografica che riassume i temi della presentazione) «si sentirebbero più rassicurati nel sapere da dove vengono i bovini utilizzati per produrre la Bresaola». Ebbene no! Per lo meno non fino a quando non sarà obbligatorio. Nella fattispecie fino a quando la Commissione europea non emanerà un regolamento che introduca il vincolo di dichiarare l’origine della carne lavorata. «Il Parlamento europeo si è espresso per portare in etichetta la provenienza della materia prima», mi ha spiegato Della Porta, «le informazioni sull’origine delle carni sono disponibili in una sezione dedicata del nostro sito… Comunque siamo favorevoli all’indicazione d’origine e stiamo aspettando che la Commissione europea dica in che modo va riportata in etichetta. Stiamo facendo i passi per arrivarci. Per ora non la riportiamo, in attesa che Bruxelles fornisca i dettagli di come vada fatto».

I sudamericani? Sono molto più bravi di noi

In realtà tutta la trasparenza sull’origine del prodotto si riassume, nella sezione dedicata del sito (ecco il link), in una dichiarazione a dir poco generica: «I produttori aderenti al Consorzio utilizzano principalmente carne proveniente da allevamenti europei e Sud-Americani, dove i sistemi di allevamento e i controlli in tutte le fasi della filiera garantiscono carni che rispondono alle elevate esigenze di qualità che richiede la produzione della Bresaola della Valtellina Igp». Nessun cenno a Brasile, Argentina, Paraguay o Uruguay. Né alla carne di zebù.

Consumatori campioni di giornalismo investigativo

Mi lascia molto perplesso, fra l’altro, il dato sul 21% dei consumatori che, secondo l’indagine della Doxa, «già sapeva che i migliori tagli di coscia di manzo utilizzati per la Bresaola della Valtellina Igp arrivino principalmente dal Sudamerica e da alcuni Paesi europei». Come hanno fatto a scoprirlo, visto che fino a ieri si trattava di un’informazione quasi top secret? Io ho impiegato anni ad accertarlo e ci sono riuscito solo grazie all’applicazione Coop Origini che dallo smartphone consente di risalire alla provenienza delle materie prime utilizzate per i 1600 prodotti a marchio Coop. Possibile che 2 consumatori su 10 abbiano strumenti d’indagine più efficaci dei miei? Chiederò alla Doxa che me li presenti, così imparo come si fa.

I nostri allevatori? Degli incapaci

Infine un cenno alla carne italiana. «In Italia mancano i pascoli e i bovini sufficienti a soddisfare la domanda nazionale di carne», si legge sempre nell’infografica che pubblico qui sopra e per di più «il disciplinare Igp impone la scelta di tagli con particolari caratteristiche organolettiche e nutrizionali, più difficili da trovare in Italia». Insomma, i nostri allevatori non sarebbero capaci di crescere bovini adatti a diventare Bresaola. Ma siamo sicuri che sia davvero così? Chissà cosa ne pensa l’amico Fabiano Barbisan, grande allevatore del Veneto e presidente del Consorzio Unicarve, cui si deve fra l’altro l’approvazione della legge che istituisce il consorzio Qualità Verificata

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Sentenza Ue: il gallo del Chianti non si può imitare

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bottiglie di Chianti Classico

Il gallo del Chianti è salvo. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha deciso con una sentenza storica che il simbolo del vino più noto d’Italia non può essere utilizzato sull’etichetta di altre bottiglie dal momento che rappresenta un «carattere distintivo intrinseco del marchio Chianti». Confermato il parere dell’Ufficio Ue per la proprietà intellettuale (Euipo) che aveva negato la registrazione del simbolo del gallo alla Berebene Srl.

logo gallo Berebene

Il gallo Berebene

Ad opporsi alla richiesta di registrazione avanzata dalla Berebene era stato il Consorzio di tutela del Chianti Classico ottenendo  una pronuncia favorevole da parte dell’Euipo. Ma la Berebene aveva presentato ricorso alla Corte di giustizia Ue. Ieri il verdetto.

Durissime le motivazioni della sentenza (qui il link). I giudici di Strasburgo sottolineano l’esigenza «al di là del grado di somiglianza tra i due segni, di evitare fenomeni di parassitismo commerciale. Infatti, vista l’elevata notorietà e il carattere distintivo intrinseco del marchio Chianti, il fatto di utilizzare un segno avente una certa somiglianza con esso proprio per dei vini presenta un rischio concreto che il pubblico di riferimento associ l’immagine del gallo del marchio della Berebene ai vini Chianti». E in effetti i due simboli, a parte il soggetto, si assomigliano poco. Ma la Corte Ue ha stabilito che nei consumatori si logo Chianti Classicosarebbe potuta ingenerare lo stesso confusione.

Una decisione che ribalta di fatto alcune sentenze dannose per il made in Italy a tavola. Come quella che autorizzava un’azienda agricola belga a mettere in vendita pomodori “San Marzano”, con una evocazione clamorosa ai danni della Dop Pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese Nocerino.

Vale la pena di segnalare che la Berebene Srl ha sede a Roma e francamente fa specie che una società italiana pensi di poter registrare un marchio contenente il simbolo di un vino di grande tradizione come il Chianti. I nostri prodotti – proprio a cominciare dai vini –  sono già oggetto di falsificazioni in tutto il mondo da parte di taroccatori fin troppo agguerriti. Quando le imitazioni arrivano da casa nostra sono ancora meno scusabili.

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Scoppia la guerra del pomodoro pelato

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pomodoro pelato

Puglia contro Campania: scoppia la guerra del pomodoro pelato. Dopo lo scontro sulla Mozzarella di Gioia del Colle Dop le due regioni arrivano nuovamente ai ferri corti. Questa volta per la solanacea rossa lavorata e inscatolata. A scatenare lo scontro è stata la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il 13 marzo 2021,  della richiesta di riconoscimento del Pomodoro pelato di Napoli Igp. La pratica ha già avuto il via libera dal nostro Ministero delle Politiche agricole. Ora manca soltanto l’imprimatur della Ue. Ma si tratta, a questo punto, di un passaggio formale.

Donato Pentassuglia pomodoro pelato

Donato Pentassuglia

Ai produttori pugliesi, però, non sta bene. L’assessore pugliese all’Agricoltura Donato Pentassuglia ha annunciato che la Regione si opporrà al riconoscimento. «Ci sono sessanta giorni di tempo per farlo e abbiamo quasi istruito il fascicolo», ha puntualizzato. Il motivo? Secondo i pugliesi il 90% della produzione di pelato si concentra nella provincia di Foggia. Dunque, a rigor di logica, l’Indicazione geografica protetta spetterebbe al pomodoro foggiano. Una diatriba che si trascina da almeno quattro anni ed è esplosa quando il testo con il placet del ministero è finito sulla Gazzetta Ufficiale. Ma siamo soltanto all’inizio.

IN CAMPO L’ASSOCIAZIONE CONSERVE VEGETALI

Antonio Ferraioli

Antonio Ferraioli

Sulla questione è intervenuto anche Antonio Ferraioli, presidente dell’ Anicav (Associazione nazionale industriali conserve vegetali), nata a Napoli nel 1945. «Riteniamo sia giusto fare chiarezza», ha fatto  sapere in una nota, «perché l’Indicazione geografica protetta, come si evince molto chiaramente dal disciplinare di produzione, non riguarda assolutamente la materia prima ma il prodotto trasformato, appunto il pomodoro “pelato”. Per questo motivo non si fa alcun riferimento alla provenienza del pomodoro fresco, che tutti sanno venire per la maggior parte dalla Puglia». Fra l’altro l’Igp non lega indissolubilmente l’alimento alla zona di produzione della materia prima, come accade ad esempio per Bresaola della Valtellina e Speck dell’Alto Adige che possono essere fatti a partire da carne proveniente dai cinque continenti.

Per le Dop (Denominazioni d’origine protette) devono sussistere  tre condizioni irrinunciabili:  origine del prodotto, ricetta tradizionale e luogo di trasformazione in una zona ben definita. Per le Igp bastano due di queste tre condizioni. E nel caso del Pomodoro pelato di Napoli Igp le due condizioni sono la ricetta tradizionale e il luogo di trasformazione.

TRASFORMAZIONE E MATERIE PRIME

Semmai si potrebbe discutere sul fatto che il Pomodoro pelato di Napoli Igp, da disciplinare  (qui il link), si possa produrre non soltanto nel Napoletano, ma nel «territorio amministrativo delle Regioni Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise e Puglia». Così, l’impianto di lavorazione e confezionamento potrebbe trovarsi, addirittura, in provincia di Teramo, pur sfornando il Pelato di Napoli. Ma non si tratterebbe  del primo e nemmeno dell’unico caso.

Il Prosciutto di Parma Dop, ad esempio, prevede che la zona tipica di produzione «comprenda il territorio della provincia di Parma posto a sud della via Emilia a distanza da questa non inferiore a cinque chilometri, fino ad una altitudine non superiore a 900 metri, delimitato ad est dal corso del fiume Enza e ad ovest dal corso del torrente Stirone». Dunque il vincolo dei salumifici al territorio è molto stringente. Ma il Parma Dop si può fare a partire da cosce di suini nati, allevati e macellati in Italia, provenienti però da 10 regioni italiane: Emilia- Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte, Molise, Umbria, Toscana, Marche, Abruzzo e Lazio (qui il link).

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Com’è difficile capire cosa siano le Dop e le Igp

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Dop e Igp sono le sigle che individuano i prodotti alimentari legati ai territori e alle tradizioni che questi luoghi esprimono. Un cibo a Denominazione d’origine protetta, Dop in sigla, deve rispettare tre caratteristiche:

  1. essere fatto sulla base di una ricetta tradizionale comprovata, consolidata nel tempo e strettamente legata ai luoghi in cui viene prodotto;
  2. utilizzare soltanto materie prime italiane provenienti dalle zone rigorosamente fissate dal disciplinare di produzione (spiego fra poco cosa sia il disciplinare):
  3. il luogo di produzione o trasformazione si trovi in Italia, in una zona fissata sempre dal disciplinare, solitamente uno o più comuni limitrofi

Gli alimenti a Indicazione geografica protetta, invece, devono rispettare due di queste tre condizioni. E se si eccettuano le Igp vegetali – ad esempio il Cappero di Pantelleria o la Cipolla Rossa di Tropea – di solito le due caratteristiche rispettate sono:

  1. ricetta tradizionale comprovata;
  2. luogo di produzione o trasformazione in Italia (ma non potrebbe essere diversamente).

La materia prima utilizzata nelle Igp, invece, non è necessariamente italiana e può arrivare da ogni parte del mondo., come avviene per esempio per la Bresaola della Valtellina Igp, lo Speck dell’Alto Adige Igp e la Mortadella di Bologna Igp.

Poi esistono pure le Stg (Specialità tradizionali garantite) che sono delle Igp ancora meno legate al territorio e devono in sostanza rispettare la ricetta. In tutto sono tre: mozzarella, pizza napoletana e amatriciana tradizionale.

Ecco, comunque, i tre bollini che identificano quelle che nel gergo tecnico si definiscono «indicazioni geografiche».

bollini Dop Igp Stg

Ecco i bollini di Dop, Igp ed Stg

Per semplificare, dunque. le Dop devono rispettare tre condizioni su tre, le Igp soltanto due su tre e le Stg appena una. Ma questa semplificazione è mia e vi confesso che ho impiegato anni a elaborarla nella maniera che vi ho appena esposto. Qualora un consumatore volesse approfondire sulle fonti ufficiali cosa siano Dop, Igp ed Stg ben difficilmente ci capirebbe qualcosa. Faccio alcuni esempi.

ORIGIN ITALIA

L’associazione dei consorzi di tutela delle indicazioni geografiche, Origin Italia, se la cava pubblicando sul proprio sito le definizioni ufficiali prese dal regolamento Ue 1151/2012 che paiono scritte, però, per non farsi capire. Eccole.

Con la dicitura DOP Denominazione di Origine Protetta si intende:
“il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: originario in tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese le cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani, e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nella zona geografica delimitata”.

Con la dicitura IGP Indicazione di Origine Protetta si intende:
“il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: come originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e del quale una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possono essere attribuite a tale origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell’area geografica determinata”.

Sfido chiunque a capire quali meccanismi mettano in gioco queste definizioni. Fattori naturali e umani? Qualità? Reputazione? Di cosa si parla? E nulla sulla materia prima.

IL MIO CIBO, LA TUA CONFUSIONE

Non va meglio con il sito ilmiocibo.it, iniziativa per altro lodevole, frutto di una collaborazione fra Fondazione Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura (Coldiretti) e Ministero della Salute. Nella pagina dedicata a Dop, Igp ed Stg compare infatti una infografica che ricalca purtroppo l’impostazione europea. Eccola.

 

infografica Dop Igp Stg

L’infografica che compare sul sito ilmiocibo.it

Certo, si parla di «legame (più forte nella Dop e meno forte nella igp) tra prodotto e territorio», ma quale sia questo legame non è per nulla chiaro.

TOPPA ANCHE WIKIPEDIA

Perfino Wikipedia non fa meglio e scimmiotta le definizioni comprese nel Regolamento Ue 1151/2012. Ecco cosa scrive a proposito della Dop:

L’ambiente geografico [a cui sono legate le Dop, ndA] comprende sia fattori naturali (clima, caratteristiche ambientali), sia fattori umani (tecniche di produzione tramandate nel tempo, artigianalità, savoir-faire) che, combinati insieme, consentono di ottenere un prodotto inimitabile al di fuori di una determinata zona produttiva.

E la materia prima? Per le Dop è dirimente e come abbiamo visto la sua provenienza è la caratteristica che le differenzia dalle Igp. Pure in questo caso sfido chiunque a capire fino in fondo le differenze fra le indicazioni geografiche descritte.

L’INFOGRAFICA DEL CASALINGO DI VOGHERA

Per semplificare la vita ai miei lettori ho realizzato una infografica per riassumere schematicamente il meccanismo delle tre caratteristiche il cui rispetto totale o parziale differenzia le tre indicazioni geografiche. Eccola.

differenze Dop Igp Stg

L’infografica del Casalingo di Voghera su Dop, Igp, Stg

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