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Top e flop all’Expo 2015

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Difficile dire cosa sia veramente l’Expo. Da quando ha aperto ho visitato l’esposizione più di quindici volte. Da solo, con amici, colleghi. Perfino con la famiglia. Non saprei dare però una definizione univoca dell’evento. Forse perché è talmente enorme da poter vestire qualunque abito riesca a cicirle addosso ogni singolo visitatore. Una kermesse mondiale, una fiera da strapaese in chiave glocal, una immersione totale nel gusto del mondo. Ma anche una Gardaland dei sapori. O un frullato di gastronomia internazionale. Fate voi.

Una cosa penso di poter dire con certezza: l’Expo sta diventando un fenomeno sociale. Un punto di riferimento collettivo così potente da spingere perfino i milanesi a disertare i locali della movida notturna e trasferirsi in massa fra i padiglioni di Rho. Sbaglia chi la stronca senza neppure averla vista. Fra le tante cose che ho capito in questi giorni ce n’è una che mi sento di raccomandare a quanti fanno il mio stesso mestiere, il giornalista. Vale la pena di stare ad ascoltare i visitatori. Confondendosi con loro, ma senza interferire. Serve a capire i mille modi con i quali si può entrare in contatto con l’esposizione universale.

Top e flop, un gioco ma non troppo

Anziché compilare un elenco noioso e sconfinato fra padiglioni, stand, ristoranti, chioschi e tavole calde ho preferito dare ai lettori una serie di stimoli classificando il padiglione più divertente, quello più coinvolgente da un punto di vista culturale e delle tradizioni, il più comprensibile. E il loro contrario. In mezzo c’è una fenomenologia variegata e difficile da classificare. Sempre che sia davvero utile farlo. Il codice che ho utilizzato è quello degli opposti. Il meglio e il peggio, il top e il flop dell’esposizione. Per compilare l’elenco non mi sono lasciato influenzare dal giudizio dei visitatori, soprattutto a proposito di ristoranti. Ma ho scelto in base alle mie sensazioni. Ecco il risultato.

Divertimento

  • La grande folla davanti al padiglione brasiliano
  • Il padiglione del Vietnam

Il padiglione più diverte in assoluto è senza dubbio quello del Brasile con la rete sospesa che porta i visitatori a camminare letteralmente nel vuoto, sopra alla flora caratteristica del Paese sudamericano. Una serie di sensori attivano luci e suoni in funzione del peso e della posizione di quanti sono presenti sul percorso. La rete è la metafora che testimonia la grande flessibilità e al contempo la varietà delle colture agricole brasiliane. Un’invenzione dello Studio Arthur Casas che ha centrato l’obiettivo di attrarre il pubblico accompagnandolo in una visita immaginaria attraverso le tradizioni, i paesaggi e i cibi che fanno di Brasilia una delle grandi capitali dell’alimentazione nel mondo.

Quanto a divertimento il flop è sicuramente quello del Vietnam. Gradevole nel complesso l’architettura, segnata da torri realizzate con canne di bambù, il padiglione di Hanoi non offre praticamente alcuna attrazione. Al piano terra ci sono prodotti dell’artigianato locale, sculture, maioliche e vasi. Al primo una serie di manichini che «sfoggiano» i costumi tradizionali vietnamiti: grossolani quanto basta per avere il sospetto che siano appena usciti da un magazzino di cinesate situato in una qualunque grande città italiana. Nelle prime settimane su alcuni schermi digitali era visibile un documentario su tradizioni, artigianato, agricoltura ed economa vietnamite. Da un certo momento in poi i monitor sono stati inopinatamente spenti. Tre minuti trascorsi in questo padiglione possono sembrare un’eternità.

Sostenibilità

  • Una delle quattro torri del padiglione svizzero
  • L'ingresso del padiglione malese

Il consumo intelligente è alla base di un futuro sostenibile. Ed è proprio questa la lezione che si può apprendere al padiglione della Svizzera, caratterizzato da quattro torri riempite ciascuna con un alimento diverso: l’acqua, il sale, il caffè, le mele. I visitatori possono servirsi di ciascun prodotto nella quantità che desiderano. Più ne prendono e più in fretta si svuoteranno le torri, modificando anche l’aspetto del padiglione. La parsimonia dei primi visitatori darà la possibilità agli ultimi di trovare ancora scorte disponibili. Nel caso in cui le torri venissero svuotate gli svizzeri hanno fatto sapere che non reintegreranno il contenuto con nuove forniture. Dunque il rischio è che qualcuno resti a bocca asciutta, proprio come accade nella realtà.

Ho deciso invece di appioppare alla Malaysia il titolo di padiglione flop quanto a sostenibilità. Non tanto per la struttura architettonica, quanto perché una saletta della struttura è destinata a convincere i visitatori che l’olio di palma, al centro di polemiche infinite, sia il miglior grasso vegetale esistente al mondo. Preferibile perfino all’olio extravergine d’oliva. Stolti noi europei che ci ostiniamo a non prenderne atto e lo avversiamo in ogni modo! Una operazione di green washing in piena regola, nel tentativo di rendere presentabile quel che io realtà non lo è. Oltre alle perplessità sulle caratteristiche nutrizionali dell’olio di palma, infatti, i grandi Paesi produttori come la Malaysia (seconda al mondo dietro l’Indonesia), sono sotto accusa per le imponenti deforestazioni compiute far far posto alle palme da olio, talmente vaste da modificare in maniera permanente l’ecosistema locale.

Tradizioni

  • L'accesso al padiglione dell'Oman, che ospita anche un ristorante
  • Il padiglioncino moldavo, tutto vetri e acciaio

Uno dei Paesi che all’Expo racconta più fedelmente le proprie tradizioni alimentari è l’Oman. Nulla di sconvolgente, ma almeno il visitatore viene condotto per mano attraverso un itinerario al termine del quale sa di cosa si cibino gli omaniti, come mangino e a gradi linee anche perché la cucina del sultanato privilegi alcuni ingredienti a discapito di altri. All’estremo opposto la Moldova, anche se alla voce «tradizioni tradite» l’elenco è lungo. Il padiglioncino moldavo c’entra come i cavoli a merenda e si presterebbe benissimo a ospitare, indifferentemente, una farmacia in zona periferica o i venditori di un autosalone.

Pertinenza

  • Il campo verticale allestito al padiglione israeliano
  • Il mini luna park che accoglie i visitatori del padiglione olandese

Rispetto al tema dell’esposizione universale, «nutrire il pianeta», la presenza più centrata è senza dubbio quella di Israele. Il campo verticale, uno degli elementi d’attrazione dell’intera Expo e soprattutto il racconto di come i coloni ebrei siano riusciti a strappare al deserto vaste aree trasformate in campi coltivabili: senza dubbio una risposta significativa alla sfida di dar da mangiare a chi non ne ha. Un po’ scolastico il percorso all’interno del padiglione, poco evidenti gli ultimi sviluppi con i sistemi d’irrigazione goccia a goccia alimentati da pompe a pannelli solari. Nel complesso, comunque, lodevole l’ambientazione e l’obiettivo che si sono dati gli israeliani.

Fra i meno pertinenti il padiglione dell’Olanda che per attrarre i visitatori mette in mostra un luna park in miniatura e li accoglie con un chiosco dove si servono mini pancake alla Nutella. Tutto in piccolo, anche l’immaginazione di chi ha progettato la presenza olandese all’Expo.

Comprensibilità

  • L'ingresso del padiglione coreano alla domenica mattina, senza le consuete code
  • L'installazione inglese, bella ma tutto fuorché intuitiva

La Corea ha scelto una soluzione pertinente l’Expo e anche molto comprensibile, con il racconto delle proprie tradizioni alimentari, a partire dagli onggi, orci in terracotta in cui da secoli i coreani fanno fermentare i cibi, anche per svariate settimane. Lo slow food all’orientale, spiegato in maniera chiara e coinvolgente. Con quel tanto di tecnologie digitali capaci di avvincere i visitatori, ma mai fine a loro stesse.

All’estremo opposto il padiglione della Gran Bretagna che utilizza la metafora dell’alveare. La visita si ispira al movimento di un’ape, a partire da un’orchidea, passando per un prato fiorito fino al ritorno all’alveare. Come sottofondo i rumori registrati in un vero alveare in Regno Unito. Bello ma un po’ (tanto) criptico.

Architetture

  • La bolla di cristallo che domina l'ingresso le padiglione azero
  • Il Sudan ha scelto una soluzione discutibile: padiglione o casamatta?

Tanto è attraente ed emozionante il padiglione dell’Azerbaijan, altrettanto è scontato e brutto quello sudanese. Il primo è frutto dello sforzo creativo e progettuale di Simmetrico Network, un gruppo di creativi fondato nel 2007 a Milano da Daniele Zambelli. Il secondo ricorda un bunker e offre del Sudan un’immagine respingente. Grossolane le finiture.

Cultura

  • La ressa davanti al Padiglione Zero
  • Il padiglione statunitense

Ideato da Michele De Lucchi, il Padiglione Zero è il condensato della cultura alimentare del mondo e offre una sintesi di quanto l’uomo ha prodotto dalla sua comparsa sulla Terra fino a oggi. Inclusi le trasformazioni del paesaggio naturale, la cultura del cibo e i rituali del consumo. Di non facile comprensione, la visita richiede una lettura attenta, sala per sala, dei pannelli che raccontano vizi e virtù dell’umanità. Ho visto molte scolaresche attraversarlo a passo di corsa: visitarlo in quel modo non serve a niente. Se questo è il top, il flop culturale è rappresentato dall’installazione degli Stati Uniti, frequentatissima da fiumane di ragazzotti che ambiscono a salire sull’ampia terrazza da cui si gode un ottimo panorama dell’Expo. Tutto lì.

Trasparenza

  • Un bancone al supermercato del futuro realizzato dalla Coop. Sopra alla merce le etichette aumentate
  • La facciata del padiglione Citterio nel Cardo Sud

A innalzare il vessillo della trasparenza a tavola è Coop Italia che nel Future Food District ha realizzato il supermercato del domani. Tutto ruota attorno alle «etichette aumentate» che per ciascuna delle referenze in vendita, racconta origine, caratteristiche nutrizionali, condizioni di consumo e via dicendo. È uno dei pochi luoghi in tutta l’Expo (si contano sulle dita di una mano) in cui si parla di origine dei cibi e di materie prime alimentari. E dire che avrebbero dovuto essere fra i grandi temi dell’esposizione.

Tra i flop della trasparenza non c’è che l’imbarazzo della scelta. Ho deciso di indicarne uno che ha colpito più di tutti la mia immaginazione. Si tratta dell’Accademia Citterio, una salumeria con tanto di pizzicagnoli, prosciutti, salami e affettatrici. A fine spesa passare alla cassa, prego! È vero che nel Cardo Sud vi sono quasi esclusivamente esercizi commerciali a pagamento, ma almeno si poteva scegliere un altro nome, senza giocare sull’equivoco della dimensione culturale.

Ristoranti

  • L'ingresso del Bibigo che si trova al piano terra del padiglione coreano
  • il Japan Star Dining: 110 euro per un piatto con questa ambientazione sono un'enormità

Fra quelli etnici e che si possano veramente definire tali, con servizio al tavolo e al chiuso, il ristorante top è sicuramente il Bibigo coreano. Menù degustazione da 20-25 euro, piatti unici (e abbondanti) da 15 in su, personale educato e disponibile. Il flop è invece il Japan Star Dining famoso per lo scontrino da 115 euro: 5 per una bottiglietta d’acqua minerale e 110 per un piatto di pesce. Che potrebbe anche starci se il locale nipponico non fosse una via di mezzo tra una mensa aziendale con tanto di panconi in legno e la sala d’attesa di una Asl. Una volta fatto l’ordine e saldato (in anticipo) in conto ci si deve sedere aspettando pazientemente che sui monitor compaia il proprio numero di vassoio. Dopodichè si può ritirarlo e scegliersi il tavolo. Una mensa digitale, ma pur sempre una mensa.

Orientamento

  • La mappa cartacea che ho scarabocchiato per farmi uno dei tanti itinerari
  • La pagina del sito da cui scaricare la app ufficiale di Expo. Pessima

Meno male che c’è ancora la carta! La mappa cartacea dell’esposizione surclassa quella digitale, accessibile dall’app ufficiale (qui il link), a cui manca però una funzione fondamentale per chi debba muoversi nel quartiere espositivo di Rho: la ricerca libera per parola chiave. Ne ho già parlato in un post precedente (eccolo) per cui non mi dilungo.La cartina fisica non è il massimo. Ad esempio i padiglioni in ordine alfabetico si trovano sul retro rispetto alla pianta, sotto la quale sono sì elencati, ma in ordine numerico. Stranezze (e minchiate) di chi l’ha pensata. Ma per disegnare un itinerario o trovare l’installazione di un Paese, è di gran lunga preferibile rispetto alla mappa digitale. Un caso di scuola di come i supporti tradizionali possano fare meglio rispetto a quelli interattivi. Soprattutto qualora l’autore digitale nel compilare il codice non pensi agli utilizzatori finali, i visitatori, ma al cliente che gli ha commissionato la app.

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