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Tutto quello che non vi hanno mai detto sulle Denominazioni comunali

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Le Denominazioni comunali non sono una certificazione di origine o di qualità. I sindaci ne attestano solo il loro legame col territorio

Più approfondisco le Denominazioni comunali – in sigla De.co – e meno ci capisco. Né i miei tentativi di risalire alla normativa da cui traggono origine mi hanno chiarito le idee. Anzi, più scavo e più ho le idee confuse. Mi conforta sapere che sono in buona compagnia, anche se chi ho interpellato in questi giorni per approfondire il tema è convinto del contrario.

Ma andiamo con ordine. Le Denominazioni comunali sono nate da un’intuizione di Luigi Veronelli, giornalista, gastronomo, grande esperto di vini ma anche editore e conduttore televisivo, morto nel 2004 all’età di settantotto anni. L’introduzione nel nostro ordinamento delle De.co viene fatta risalire per convenzione alla Legge 142 dell’8 giugno 1990, che «detta i principi dell’ordinamento dei comuni e delle province e ne determina le funzioni». Ma se cercate nel testo un riferimento diretto o indiretto alle De.co perdete il vostro tempo. Non se ne fa menzione. E da quel che mi risulta non c’è legge dello Stato che citi espressamente le Denominazioni comunali.

Luigi Veronelli

Si fa risalire il riconoscimento delle De.co ai Comuni e in particolare al sindaco, in forza dell’articolo 2, comma 2 della Legge 142, che recita testualmente:

«Il comune è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo».

Tutto qui. E non chiedetemi a quale titolo si possa far risalire l’istituzione delle Denominazioni comunali a una formulazione tanto generica e vaga. Semmai questo spiega l’incertezza in cui galleggia tuttora il sistema delle De.co anche se, nel corso degli anni, i Comuni ne hanno registrate svariate centinaia. E più di recente alcune Regioni hanno varato leggi che ne istituiscono il Registro digitale. Ultimo in ordine di tempo quello introdotto dalla Sicilia con la legge della Regione Siciliana n. 3 del 2022. Provvedimento assurto agli onori delle cronache perché il governo – presidente del Consiglio Mario Draghi – lo ha impugnato mettendone in dubbio la costituzionalità con un ricorso alla Suprema Corte. Il riconoscimento ufficiale derivante dalla pubblicazione nel registro regionale sarebbe in contrasto  – su questo si basava il ricorso alla Corte del governo Draghi – con le norme Ue a tutela dei marchi Dop (Denominazione di origine protetta), Igp (Indicazione geografica protetta) e Stg (Specialità tradizionale garantita). La Corte costituzionale ha respinto il ricorso del governo, stabilendo nella sentenza (ecco il link) che non sussista contrasto fra uno strumento che classifichi le De.co siciliane. Il motivo? Non si tratta di un marchio che possa entrare in conflitto con Dop, Igp o Stg, ma  una mera «attestazione di identità territoriale» destinata a individuare l’origine e il legame storico culturale di un determinato prodotto tipico con il territorio comunale di appartenenza.

Vale la pena di notare che per i giudici costituzionali la potestà dei Comuni sulle De.co si può far risalire alla Legge 142 del 1990 e al Decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 142. Si legge, infatti nella sentenza:

«L’attestazione di De.co (…) viene rilasciata dai comuni i quali vi provvedono con delibera del Consiglio comunale, su proposta della Giunta comunale. Si tratterebbe di un potere esercitato in attuazione dei principi sul decentramento amministrativo, ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost. e della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) e, da ultimo, del Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali)».

LA LOBBY DEI GRANDI CONSORZI DI TUTELA

I bollini Dop, Igp ed Stg

L’assenza di norme nazionali che statuiscano e regolino le De.co, si deve senz’altro alla ritrosia dei governi che si sono succeduti dal 1990 in poi ad affrontare una materia controversa. Stante soprattutto l’opposizione dei grandi consorzi di tutela delle indicazioni geografiche che vi avrebbero visto l’introduzione di un nuovo marchio di qualità in concorrenza con Dop e Igp. È questo il motivo per cui non esiste un unico logo che le identifichi e al contrario ogni amministrazione comunale abbia creato il proprio. Dietro all’apparente anarchia grafica delle De.co si cela l’esigenza di non rappresentarle univocamente per evitare che entrino in rotta di collisione con le “sorelle maggiori”. Vale a dire le indicazioni geografiche europee.

Acclarato che le De.co non certificano un bel nulla (guai a pensare il contrario!) e spiegata l’assenza di una normativa che le statuisca e ne regoli in maniera univoca la concessione da parte dei sindaci, c’è un sostanziale disaccordo fra gli epigoni di Veronelli perfino sui marchi elaborati dai singoli Comuni. Secondo Gian Arturo Rota, custode dell’immenso archivio veronelliano e per 11 anni alla guida della Veronelli Editore avrebbe sbagliato il comune di Amatrice che nel concedere la De.co alla ricetta della pasta all’amatriciana ha registrato logotipo e relativo pittogramma (era il 2014) all’Ufficio marchi e brevetti dell’allora Ministero dello Sviluppo Economico. «Le De.co – scrive Rota  in un botta e risposta con un consigliere comunale di Amatrice – sono state interpretate da centinaia di comuni italiani come un marchio. NON LO SONO, sono una certificazione d’origine semplice, che ha nella delibera comunale la massima espressione burocratica, se si vuole restare fedeli all’idea originaria di Veronelli».

RICONOSCIMENTO MINISTERIALE

Ma c’è chi la pensa molto diversamente al riguardo. Parlo di Riccardo Lagorio, ritenuto fra i maggiori interpreti dell’eredità di Veronelli. In un articolo di Renato Andreolassi su Italia a Tavola del febbraio 2019, Lagorio spiega che «dopo l’adozione dell’apposita delibera con un preciso percorso storico e culturale da parte del consiglio comunale interessato, il documento deve essere sottoposto alla definitiva approvazione del ministero dello Sviluppo economico. Solo dopo questo ultimo timbro governativo si potrà parlare a tutti gli effetti di riconoscimento De.co per un prodotto agroalimentare». E quando Andreolassi gli fa notare che solo in provincia di Brescia ci sono una quarantina di De.co su 206 Comuni, Lagorio puntualizza che «quelle riconosciute dal Ministero  sono solo sette». Il chisulì, un dolce di Passirano; il fatulì – formaggio – di Cevo; il salame cotto di Quinzano; a Ponte di Legno il gnoc con la cua (gnocco con la coda); a Barbariga il casoncello Bariloca; e ancora la sopressa di Marone e infine, lo spiedo di Serle.

Alla fine riassumo in breve quello che ho scoperto: le De.co non sono un marchio, ma possono avere un marchio (logo) comunale che però non va registrato al Ministero delle Imprese (ex Sviluppo Economico), anche se la De.co andrebbe sì registrata al medesimo Ministero.

RIMPALLO DI COMPETENZE

Ah, dimenticavo. Nel tentativo di chiarirmi le idee almeno sulla competenza istituzionale della materia ho chiesto al Ministero dell’Agricoltura se esistano linee guida per il riconoscimento delle De.co. Il sindaco del comune dove abito, Godiasco Salice Terme, mi ha assegnato la guida del Comitato De.co. Ed ecco la risposta: «Il ministero non può fare linee guida per le De.co perché sono denominazioni comunali previste da leggi regionali». Curioso, visto che lo scorso anno il governo Draghi ha portato la Sicilia davanti alla Corte Costituzionale proprio perché ha approvato una legge regionale sul Registro telematico delle De.co.

E non è finita qui. Nel tentativo di capire se per caso la Lombardia, Regione in cui è situato il comune di Godiasco Salice Terme, abbia definito  le linee guida per le De.co e se esista il registro regionale, prendo contatto con l’Assessorato all’Agricoltura di Palazzo Lombardia. Nulla di tutto questo: «Regione Lombardia non ha un registro delle De.co regionali», mi sento dire, perché «la competenza è a livello dei singoli comuni».

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