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Stabilimento di produzione in etichetta: ecco la verità

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Torna l’indicazione obbligatoria dello stabilimento di produzione sulle etichette degli alimenti. Forse. Il provvedimento licenziato dal governo Renzi il 10 settembre, l’indomani della manifestazione Coldiretti al Brennero, è infatti uno schema di Disegno di legge di delegazione comunitaria. In pratica una bozza, destinata a passare due diversi esami. Prima a Bruxelles, poi al Parlamento italiano. Inutile dire che il passaggio alla Commissione europea è il più insidioso. Le disposizioni licenziate dal governo Renzi sono destinate infatti a emendare il nuovo regolamento europeo in materia di etichettatura, il numero 1169 del 2011. Entrato in vigore lo scorso 13 dicembre. Da allora i produttori di cibi possono non scrivere dove l’alimento è stato lavorato e confezionato.

Latte bavarese travestito da italiano

Facciamo qualche esempio. Per il latte a lunga conservazione non è prescritto l’obbligo di indicare l’origine della materia prima. In base al nuovo regolamento comunitario un’azienda italiana può far confezionare l’alimento bianco direttamente in Baviera, con latte locale e metterlo in vendita nel nostro Paese. Nulla comparirebbe in etichetta e il consumatore sarebbe convinto di aver messo nel carrello un prodotto italianissimo, quando di made in Italy non c’è neppure la confezione. Stesso meccanismo per la pasta, i salumi non Dop, il pane, il riso, la carne confezionata e via dicendo. Tranne poche referenze, per le quali è obbligatoria l’indicazione d’origine, la stragrande maggioranza dei cibi potrebbe essere totalmente straniera. E non potremmo accorgercene.

In  gioco, oltre alla legittima aspirazione dei consumatori di sapere da dove provenga quel che mangiano, c’è la sopravvivenza della nostra agricoltura. Un finto prodotto italiano – finto nella materia prima e nel luogo di lavorazione – costa sempre meno al trasformatore rispetto a quello vero. Così le nostre materie prime finirebbero del tutto fuori mercato. Nessuno le acquisterebbe più perché la possibilità di confezionare alimenti indistinguibili dai veri cibi made in Italy, ma di origine e provenienza straniera, darebbe la possibilità all’industria di fare a meno dei veri ingredienti italiani.

Governo diviso

Fortemente contraria alla reintroduzione dell’obbligo sulla fabbricazione trasparente è l’industria. Non a caso il referente al governo dei grandi trasformatori, vale a dire il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, ha sempre frenato, congelando l’azione di governo sul tema. Una posizione che l’ha portata in rotta di collisione con il titolare delle Politiche agricole, Maurizio Martina. E proprio a lui si deve l’annuncio che il governo ha varato lo schema del disegno di legge (ecco il link con il comunicato). Le organizzazioni agricole hanno accolto positivamente la decisione del governo, interpretandola come una scelta di campo di Renzi che segna un punto importante a favore del settore primario.

La strada, però è ancora molto lunga: «Partirà a breve la notifica della norma alle autorità europee per la preventiva autorizzazione», scrive Martina sul sito del ministero, e «l’Italia insisterà sulla legittimità dell’intervento in applicazione di quanto previsto dall’articolo 38 del regolamento n. 1169/2011, motivandola in particolare con ragioni di più efficace tutela della salute dei consumatori». Proprio qui sta il tallone d’Achille del tentativo italiano di reintrodurre l’obbligo di indicare lo stabilimento in etichetta. Faccio fatica a credere perfino io che si tratti di una questione di salute pubblica, nonostante mi possa definire un pretoriano del made in Italy. Figuriamoci la Commissione europea!

Furbacchioni di casa nostra

E non è finita qui. «L’obbligo di indicazione della sede dello stabilimento», si legge ancora nella nota diffusa dal Mipaaf, «riguarderà gli alimenti prodotti in Italia e destinati al mercato italiano». Quindi basta che uno dei tanti furbacchioni di casa nostra, abituati a taroccare latte, prosciutti, prodotti da forno, pasta, sughi, conserve o formaggi, apra una sede in uno qualunque degli altri Paesi Ue e riuscirà a eludere bellamente il vincolo di scrivere in etichetta dove lo lavora. Senza contare che la Commissione europea avrà gioco facile a dimostrare che la norma crea una alterazione del mercato unico. E quindi (visione distorta della Ue) rappresenta un ostacolo alla libera circolazione delle merci. Sorte che è toccata alla legge sulle filiere trasparenti (Zaia) e a quella ancora precedente sull’etichetta 100% Italia.

Vorrei tanto sbagliarmi, ma temo che il finale di partita sia già scritto.

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