ETICHETTE

L’inganno del tricolore sui cibi importati

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Ecco come riconoscere gli alimenti ottenuti da materie prime in arrivo da ogni parte del mondo, ma spacciati per «italiani».

Molti alimenti realizzati con materie prime importate si fregiano del tricolore sulla confezione. Alcuni, addirittura, scrivono pure: «Made in Italy». I casi sono numerosi, ma i più noti di tutti sono quelli della pasta De Cecco e del prosciutto “alta qualità” Fratelli Beretta. Chiarisco subito un possibile equivoco: per capire come mai sia possibile un’etichettatura del genere ho impiegato io stesso parecchio tempo. I lettori che mi seguono non devono sentirsi minimamente in colpa.

«Una truffa». «Da galera». «Devono partire subito le denunce». «Basta fregature». Questo il tenore dei commenti che raccolgo invariabilmente quando pubblico una confezione di cibo straniero «italianizzato» con la nostra bandiera. Purtroppo non è una truffa. Anzi si tratta di un’etichettatura assolutamente legale.

SPIEGAZIONE DIABOLICA

La spiegazione è diabolica e si deve a quella che definisco la «madre di tutte le fregature» al made in Italy a tavola. A rendere perfettamente legale l’inganno è nientemeno che il Codice Doganale dell’Unione europea che stabilisce tutte le regole applicate al commercio fra i Paesi della Ue e pure le relazioni con gli stati extra europei.

All’articolo 60 (comma 2), intitolato «Acquisizione dell’origine», il Codice Doganale recita:

Le merci alla cui produzione contribuiscono due o più Paesi sono considerate originarie del Paese in cui hanno subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata, effettuata presso un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione.

Attenzione alle definizioni: «ultima trasformazione o lavorazione sostanziale». Mandatele a mente perché è qui che si nasconde l’inghippo.

ALCUNI ESEMPI

Faccio qualche esempio. Un prosciutto di un maiale allevato e macellato in Germania, Olanda o Danimarca, che sia stato stagionato oppure cotto in un salumificio italiano, può scrivere in etichetta «Made in Italy» e mettere il tricolore. È tutto in regola. Tutto perfettamente legale e a norma di regolamenti europei, anche se quel prosciutto non è italiano.

La stessa cosa accade per la pasta ottenuta da grano duro importato, ad esempio dal Canada. Siccome la materia prima, cioè il grano, viene molito in Italia e la farina così ottenuta sottoposta al processo di pastificazione in un impianto situato da noi, la pasta così ottenuta può definirsi «made in Italy» e impiegare elementi che richiamino l’italianità del prodotto: il tricolore sulla vecchia confezione della pasta De Cecco prima che l’Antitrust la obbligasse a rimuovere la bandierina, oppure i trulli, come nel caso della pasta Divella.

TRICOLORE FUORI LUOGO MA È TUTTO LEGALE

Purtroppo, pur trattandosi di un’etichettatura chiaramente ingannevole sull’origine dell’ingrediente primario, è perfettamente in regola con le disposizioni vigenti introdotte dall’Unione europea. E qui vale la pena di chiarire un altro aspetto che alimenta infiniti equivoci sui social media. La competenza esclusiva per l’etichettatura degli alimenti è dell’Unione europea. Il singolo Paese non può modificare i regolamenti Ue, se non in via sperimentale e per un periodo di tempo limitato. Previa richiesta a Bruxelles. Men che meno un singolo Stato può abrogare le disposizioni contenute nel Codice Doganale europeo che hanno valore di legge e sono immodificabili. Per cambiarle servirebbe un voto del Parlamento europeo che assegni il mandato alla Commissione di intervenire. Si può essere d’accordo o meno con questa cessione di sovranità dei Paesi a vantaggio di Bruxelles (io, ad esempio, sono contrario), ma queste sono le norme esistenti e finché non si cambiano bisogna rispettarle alla lettera.

INUTILE SCANDALIZZARSI

Dunque è del tutto fuori luogo scandalizzarsi chiedendosi, come vedo fare spesso, perché i nostri politici non facciano nulla. In realtà hanno provato più volte a modificare questo stato di cose, ma la Commissione europea ha bloccato le leggi approvate dal Parlamento italiano, minacciando di aprire procedure d’infrazione con multe miliardarie. Il caso più clamoroso fu quello del Parere circostanziato chiesto dalla Germania alla Commissione e con il quale Bruxelles bocciò la legge Zaia che prevedeva l’etichettatura di filiera (qui e pure qui gli articoli in cui ricostruisco la vicenda).

LA PEZZA PEGGIO DEL BUCO

Ad un certo punto l’Europarlamento si è accorto che l’acquisizione dell’origine prevista del Codice Doganale Ue metteva in gioco un meccanismo diabolico, destinato a ingannare i consumatori. Così assegnò alla Commissione il compito di elaborare un Regolamento di attuazione per porvi rimedio. Purtroppo la pezza è perfino peggio del buco. L’Atto attuativo 775/2018 varato dalla Commissione ha previsto sì la dichiarazione d’origine obbligatoria per molti cibi, ma soltanto nel caso in cui il confezionamento del prodotto evochi – per quel che ci riguarda – un’italianità che non sussiste, nella fattispecie di alimenti realizzati con materie prime straniere. Dunque nel caso della pasta Divella o del prosciutto Fratelli Beretta andrebbe indicata l’origine del grano o della coscia di maiale. Senza però togliere dall’etichetta né il tricolore e nemmeno la dicitura «Made in Italy». I consumatori che non leggessero attentamente l’etichetta non si accorgerebbero mai della vera provenienza di quel che portano a tavola.COSA FARE ALLORA?

I prodotti di cui pubblico le immagini in questo articolo sono tutti ottenuti da materie prime non italiane. La morale è una sola: anziché indignarsi per il tricolore messo a sproposito è consigliabile leggere con la massima attenzione l’etichettatura d’origine che c’è quasi sempre. Sulla pasta è obbligatoria, sui salumi, purtroppo, no. Ove non compaia è meglio acquistare i prodotti che si dichiarano chiaramente 100% italiani.

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