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Fava: «Meglio distintivo che tipico. Così il made in Italy legato ai territori può conquistare il mondo»

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Gianni Fava, classe 1968, mantovano di Viadana, esponente di rilievo della Lega Nord, eletto alla Camera per tre legislature, dal 2013 è assessore all’Agricoltura della Lombardia. Un politico fuori dal comune. In Regione lo si vede poco: non passa giorno senza che partecipi a qualche evento sui prodotti della terra e, soprattutto, senza che visiti aziende agricole, cantine, consorzi, industrie alimentari piccole e grandi. Una leadership politica itinerante che gli è valsa la stima e la considerazione praticamente di tutto l’agroalimentare della Regione più ricca d’Italia. Ci sentiamo al telefono, guardacaso, mentre sta andando a Sondrio per partecipare a un vertice sull’agricoltura di montagna con i colleghi delle province autonome di Trento e Bolzano.

Gli chiedo di raccontarmi qualcosa su un tema che ha lanciato per primo: la rivoluzione della distintività. «Il passaggio da fare è dalla tipicità alla distintività», mi racconta, «e non è un gioco di parole. Puoi avere un prodotto tipico, ma se non desta alcun interesse non vai da nessuna parte. Con un prodotto distintivo hai un mercato potenziale enorme».

Mi fa un esempio di prodotto distintivo che non abbia nulla di tipico?

«I kiwi più pregiati al mondo sono quelli dell’alto mantovano che hanno ampiamente superato per caratteristiche organolettiche e qualità intrinseca del prodotto quelli originari, che arrivano dalla Nuova Zelanda e dall’emisfero australe. Non è necessario che un prodotto sia tipico per essere distintivo. Certo, se c’è anche storia e tradizione diventa anche più facile venderlo in un mercato globale che è molto cambiato in questi ultimi anni».

Cambiato come?

«Fino a una decina di anni fa era totalmente monopolizzato dalle commodity. Tutti potevano produrre tutto a qualunque latitudine. L’unico elemento di convenienza era legato al prezzo. Oggi non è più così. Perché per fortuna nel mondo stanno aumentando le persone attente a quel che mangiano. È grazie a questo nuovo atteggiamento che prodotti con maggior valore aggiunto riescono a trovare la giusta collocazione e una remunerazione adeguata sul mercato. Soprattutto quando presentano elementi di distintività. Vince chi può offrire qualcosa che è davvero soltanto suo».

La mostarda di Cremona

Non i kiwi, però…

«No. Cito sempre la mostarda che è l’esempio emblematico: si fa soltanto nel sud della Lombardia, non esistono altri territori al mondo dove si produca la mostarda che oggi può essere un elemento forte di penetrazione in determinati mercati proprio perché è unica. Non si fa in Cina perché è frutto di una tradizione che si tramanda da trecento anni in un territorio ben distinto. Ecco, come promozione internazionale servono proprio dei prodotti distintivi legati al territorio che facciano da traino a tutti gli altri. Così si possono fare i grandi numeri. L’importante è avere chiara questa idea».

Quale idea?

«È quello che i francesi chiamano terroir. Un territorio che vende sé stesso prima ancora dei prodotti che vi si trovano. Qualche tempo fa mi sono trovato in un ristorante su un’isola nel bel mezzo dell’Oceano Indiano e consultando la carta dei vini ho trovato i territori: Borgogna, Alsazia, Champagne. Poi vengono i marchi, le etichette. Ma non ci sono i vitigni. Nelle carte dei vini internazionali non trovi scritto Pinot Noir, Chardonnay, come da noi. Non frega più niente a nessuno. È il territorio che distingue il vino. La Borgogna è testimonianza di qualità, dice che il vino è buono. Così ti affidi a un territorio. È vincente la suggestione che i vignaioli francesi hanno saputo creare attorno al loro zone di produzione. Noi su questo abbiano lavorato troppo poco».

Cosa si può fare per rimediare?

«Concentrare le risorse su un vero piano di promozione. Che poi è anche l’unico vero antidoto alla crisi. Il mercato c’è. A livello internazionale è enorme. Senza scordare l’esempio dei francesi. È normale che noi esportiamo più vino di loro, ma le loro bottiglie valgono il doppio delle nostre?».

Già. Com’è possibile?

«Per valorizzare un prodotto devi promuovere il territorio da cui proviene e a cui è legato indissolubilmente. E per ogni territorio devi individuare un prodotto che ne sia il campione, che lo distingua. Se penso all’Oltrepò penso al vino e al salame di Varzi. E mi fermo lì. Non voglio andare oltre. Se penso alla Lomellina penso al riso anche se in quella zona di Lombardia non si produce solo riso. Così come non si fa solo vino in Franciacorta…».

Ma la Franciacorta ha sfondato…

«Vero. È diventata un esempio emblematico. Addirittura è scattata l’emulazione, tanto che il consorzio del Franciacorta è costretto spesso a fare cause a soggetti che scrivono Franciacorta sull’etichetta dei prodotti più disparati: salami, formaggi e perfino birra. Ma questo accade perché il territorio, la Franciacorta, dà garanzia di qualità. Il messaggio implicito degli emulatori è più o meno questo: siamo talmente bravi a fare il vino che ora facciamo pure i formaggi e i salumi. E funziona, anche se è giusto che il consorzio si tuteli perché il marchio Franciacorta è legato al vino e non ad altro».

Le Regioni, in quale ruolo giocano in questa partita?

«La promozione regionale la facciamo perché siamo tenuti a farla ma non esiste una promozione regionale. È sbagliata concettualmente. Solo la Toscana può permettersi di farla perché è l’unica  al mondo con un’immagine di bontà e di bellezza che prevale sul resto».

E la Lombardia?

«Quando sono arrivato alla Regione c’era un progetto per l’internazionalizzazione costosissimo che si chiamava “I vini di Lombardia”. Del tutto inutile. Nel resto del mondo vado con il made in Italy che è un marchio noto, forte, con una buona reputazione ed è già indice di qualità. E se lo dice un leghista c’è da credergli. E su questa base costruisco una serie di messaggi sui prodotti legati ai singoli territori. La promozione la faccio sui prodotti del made in Italy legati a un territorio specifico. Per una Regione come la Lombardia, così articolata e con 10 milioni di abitanti, non ci può essere un unico modello comunicativo».

Il Provolone Valpadana

Torniamo ai prodotti distintivi. Me ne indica uno che non sia in nessun modo anche tipico?

«Il Provolone Valpadana, un grande prodotto lombardo, che nell’immaginario collettivo è Auricchio. Secondo un recente sondaggio, oltre il 90% delle donne che si avvicinano al banco dei formaggi, non chiede il Provolone. Ma l’Auricchio. L’immagine aziendale ha superato in termini di reputazione quella del prodotto. Il Provolone Valpadana che è tutelato da un consorzio, però è un formaggio del Sud. Non esisteva in Lombardia fino a quando, cent’anni fa, Gennaro Auricchio venne a produrlo a Cremona perché il latte era migliore. Ancora oggi il mercato di riferimento del Provolone è per oltre l’80 per cento al Sud Italia. Ma lo produciamo noi perché è riconosciuto che siamo i più bravi. A Cremona c’è la miglior produzione di provolone al mondo. L’unica che può fra l’altro fregiarsi del nome.  Il Provolone non è un prodotto tipico. Ma è un prodotto distintivo perché chi lo produce è il più bravo al mondo a farlo».

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