ETICHETTE

Così il finto olio made in Italy finisce sulle nostre tavole

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Sulle tracce dell’olio extravergine ho censito tutte le referenze in tre punti vendita frequentati abitualmente dalla casalinga di Voghera,  precisamente Iper di Montebello, Esselunga e Coop. E ho capito che il prezzo è sì un elemento decisivo al momento dell’acquisto ma non aiuta il consumatore a capire in un determinato intervallo di valori, quale sia il vero extravergine italiano. Clamoroso il caso della Coop, dove al prezzo mediano, per la precisione 7,99 euro troviamo ben 5 referenze diverse di olio: il Viviverde Bio Coop (100% italiano), il Grezzo Naturale Farchioni (miscela di oli della Ue), il Mosto Isnardi (extravergini della Ue), il Fiorfiore Terra di Bari Bitonto Coop (Denominazione di origine protetta), e l’Extravergine Alberti (olio italiano).
A questo punto mi sono posto una domanda: cosa vede il consumatore quando si trova davanti al bancone dell’olio nei supermercati? Quale spazio e quale posizione occupano le diverse categorie di prodotto? Così, armato di metro avvolgibile, sono tornato nei tre punti vendita da cui ho iniziato questa inchiesta e ho misurato i centimetri lineari di scaffale occupati da Dop, oli italiani al 100%, finti oli italiani e via dicendo. Una tecnica utilizzata dagli studiosi di marketing per comprendere il posizionamento dei prodotti. Ecco nella infografica che pubblico in questo post il risultato.
Dall’alto in basso: i centimetri lineari che ho rilevato all’Iper (1), all’Esselunga (2) e alla Coop (3); la media delle diverse tipologie di olio rilevate (4). Poi la composizione dello scaffale tipo (5), il vero scaffale dell’olio come appare in qualunque supermercato (6) e quello percepito dai consumatori (7).
Ed è proprio l’ultimo a spiegare l’impossibilità per la casalinga di Voghera di distinguere il vero extravergine italiano fra le Dop che oltre al bollino del consorzio non mettono in chiaro la loro origine italiana, le bottiglie che dichiarano l’origine nazionale, l’olio #italianomanontroppo, l’olio d’oliva e quello di sansa. Attenzione a non cadere a vostra volta nella trappola delle etichette reticenti: le Dop sono percepite come un prodotto italiano al 100% soltanto da 4 consumatori su 100 come ho dimostrato con l’indagine sulla casalinga di Voghera.
Ed è proprio grazie a questo «effetto caos» che i produttori di finto extravergine italiano possono far credere al consumatore che la bottiglia messa nel carrello è vero oro verde made in Italy. Ma se questa è la percezione dei consumatori italiani, in un mercato come il nostro dove l’extravergine è forse il prodotto più regolamentato, cosa può accadere negli Stati Uniti? Ricordate le vignette pubblicate dal New York Times intitolate «Extra virgin suicide»? Da lì sono partito per realizzare questa inchiesta. Anche i giornalisti americani sono arrivati alle mie stesso conclusioni, incorrendo però in un equivoco di fondo: il trucco che consente all’extravergine #italianomanontroppo di farsi scegliere e finire sulle tavole degli italiani non è frutto di comportamenti criminali. Avviene tutto alla luce del sole. Anzi, la grande industria alimentare italiana rivendica il diritto di etichettare come «made in Italy» prodotti ottenuti di materie prime importate. Clamoroso il caso della pasta, di cui mi occuperò su queste pagine fra poco.
Inutile indignarsi come hanno fatto alcuni (grandi) produttori di olio. Semmai c’è da chiedersi come si comporteranno gli americani e in genere tutti gli stranieri, quando capiranno fino in fondo che i più grandi taroccatori del made in Italy stanno nel Belpaese.

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