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Cibi trasparenti, ecco cos’è successo all’Expo

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Non è vero che all’Expo si parla soltanto di frivolezze. Anzi: a seguire il fitto programma di eventi c’è di che saziare anche gli appetiti più esigenti in fatto di notizie importanti. Mi limito a tre temi, che poi sono centrali nel dibattito sulla difesa del made in Italy. L’etichetta d’origine, le Denominazioni d’origine protetta e il TTIP, sigla bruttissima che sta per Trattato transatlantico su commercio e investimenti, semplificato in Nato economica. Ecco cos’è successo in proposito all’Expo.

ORIGINE DEGLI ALIMENTI

Luigi Scordamaglia

All’assemblea pubblica della Federalimentare che si è tenuta al Conference Centre dell’esposizione universale il 10 giugno, il presidente Luigi Scordamaglia ha dichiarato:

«Cercare di risolvere con normative nazionali problemi che necessariamente hanno bisogno di un approccio europeo, come l’origine delle materie prime è controproducente: introdurre obblighi  o scorciatoie nazionali che appesantiscono ed ostacolano solo chi produce lavoro e reddito in Italia è un passo indietro per la nostra competitività rispetto a norme uniche che obblighino tutti i Paesi a rispettare le stesse regole. Su questo fronte in passato abbiamo avuto diversi motivi di discussione con le rappresentanze agricole. Ma la posta in gioco è troppo alta. Agricoltura e industria in questo paese sopravvivono o soccombono insieme».

Un chiaro messaggio alla Coldiretti ma anche alla politica, in particolare alla Lega, che si è impegnata molto sulla difesa del Made in Italy. Soprattutto a Bruxelles e a Strasburgo. Invocare regole uguali a livello europeo equivale a dire no, visto che la Ue non vuole l’etichetta trasparente.

DENOMINAZIONI D’ORIGINE

Il viceministro dello Sviluppo Carlo Calenda

Alla presentazione del segno unico distintivo per le campagne di promozione sul made in Italy all’estero il viceministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda (Expo, 27 maggio 2015) ha annunciato:

«Non si tratta di un brand di prodotto che si sovrappone al made in Italy, è un’operazione pratica per affrontare le sfide cruciali per il settore. La più importante è quella di portare nel 2015 i veri prodotti italiani sugli scaffali della grande distribuzione nel mondo, in primis sui mercati statunitense, canadese, giapponese, mentre il prossimo anno sarà la volta della Cina. In tutto il mondo troppi consumatori comprano cibo italiano che in realtà non lo è. In primo luogo perché non trovano quello autentico. Il nuovo segno unico distintivo dovrebbe fornire questa garanzia di italianità».

Calenda ha ripetuto anche quanto aveva annunciato a Milano in occasione del padiglione di Federalimentare:

«Sul TTPI si va verso un accordo simile a quello raggiunto lo scorso anno con il Canada»

Peccato che l’intesa siglata da Bruxelles con Ottawa preveda la sopravvivenza dei tarocchi locali, a cominciare dal finto prosciutto San Daniele (qui la vicenda).

NATO ECONOMICA

Il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina

E sempre a proposito del Trattato Transatlantico il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, parlando a margine di un evento organizzato a fine maggio all’Expo dalla Coldiretti, ha fatto sapere:

«Dobbiamo valutare senza ideologia se questi strumenti sono utili per rafforzare il settore agroalimentare italiano ed europeo. Credo che tutte le valutazioni debbano essere fatte a trattativa conclusa, ma questi accordi se ben impostati sono una opportunità».

Una retromarcia clamorosa, quella di Martina, che a novembre, in audizione alla Camera, aveva dichiarato:

«L’Unione europea  non potrà accettare un arretramento sulle denominazioni geografiche controllare. Per esempio il parmigiano reggiano Dop non potrà subire la concorrenza di prodotti contraffatti. Poiché si sa che i prodotti italiani subiscono l’italian sounding, il ministero è già impegnato con gli altri ministeri europei per la tutela su questi fronti. L’obiettivo è riconoscere anche negli Usa quella protezione riservata alle denominazioni controllate. Nella linea di contrattazione è prevalsa quella dell’Italia, vale a dire che la Commissione europea vincoli il più possibile la denominazione dei prodotti negli Usa». 

In realtà la bozza di accordo bloccata al Parlamento europeo per un ripensamento dei socialisti all’ultimo minuto, prima di arrivare in aula, dà implicitamente ragione agli Usa che ritengono le Denominazioni d’origine dei semplici «nomi comuni alimentari», come sostiene la potente lobby dei taroccatori del Wisconsin.

Di debole all’Expo non c’è proprio nulla. Se non la politica dell’Italia, incapace di difendere le proprie eccellenze alimentari. Ma le responsabilità di questa carenza, assieme a quelle di chi non ha a cuore i cibi trasparenti, vanno cercate a Roma. Non certo a Rho.

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