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TAROCCHI e FALSI

Il pomodoro San Marzano è la Dop più taroccata al mondo. Perfino in Italia

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Fra le centinaia di Dop italiane i pomodori San Marzano sono la più copiata. Non si tratta soltanto di italian sounding, anche se gli americani non scherzano. Purtroppo oltre al tarocco fatto in Usa esiste anche l’autotarocco. Prodotto nello Stivale. A darmene conferma è stato Domenico, un ex broker milanese reinventatosi agente immobiliare a New York. E proprio dalla Grande Mela, dopo il servizio pubblicato sul New York Times, mi ha mandato una serie di foto che hanno fatto accendere più di una spia d’allarme sul radar del Casalingo di Voghera. Anche perché lo svilimento delle eccellenze alimentari italiane è strettamente legato ai fenomeni di caporalato al Sud e ai morti fra i raccoglitori di «oro rosso». Il fenomeno della falsificazione è probabilmente la causa principale del crollo dei prezzi, scesi, come riferisce Coldiretti, agli 8 centesimi pagati in Puglia per un chilo di pomodori all’origine.

Ma andiamo con ordine. Il giorno di Ferragosto l’edizione online del quotidiano The New York Times pubblica un nuovo cartoon-inchiesta sui prodotti italiani, intitolato The Mystery of San Marzano, il mistero di San Marzano. L’autore della striscia è Nicholas Blechman, illustratore ed ex art director di New York Times Book Review. Tutto inizia quando Blechman in un negozio di Brooklyn dove si era recato per acquistare dei pelati, fa una scoperta per lui inattesa: negli States vengono commercializzati dei pomodori San Marzano, varietà italiana protetta dalla Dop che in realtà sono coltivati in America. A questo punto il giornalista-disegnatore fa un’altra «scoperta»: negli Stati Uniti non esistono le Dop né i consorzi di tutela concludendo che  «spetta ai consumatori capire la differenza» fra veri e falsi pomodori San Marzano. Verissimo. Peccato che negli Usa le Denominazioni d’origine protetta siano sistematicamente taroccate perché la potente lobby dei falsificatori locali conduce da anni una battaglia in difesa del diritto di copiare le nostre Dop, definite «nomi comuni alimentari». Non c’è bisogno di indagare a lungo per scoprire gli obiettivi dei taroccatori statunitensi. Basta consultare il sito del Consortium for common food names per capire quali siano. Uno dei punti giudicati irrinunciabili dagli americani nel negoziato sul Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti, il TTIP, è proprio il no, irrevocabile e definitivo, al riconoscimento delle Dop europee.Questo Blechman non può ignorarlo, altrimenti sembra che gli americani siano le vittime della falsificazione sistematica che colpisce anche i pomodori San Marzano. Mentre ne sono i principali responsabili. E infatti nella conta dei tarocchi, i produttori statunitensi sono in netto vantaggio su quelli del resto del mondo.

  • Il titolo scelto dal New York Times per la striscia sul pomodoro tarocco è subdolo: Il segreto di San Marzano

Fin qui la  notizia rimbalzata nella settimana di Ferragosto anche su alcune testate italiane. Ma proprio in quei giorni l’amico ex broker ora immobiliarista mi manda alcune foto scattate col cellulare in un supermercato di New York. Immagini di un barattolo di pelati, marca Cento, che dichiara l’origine italiana e si definisce San Marzano. Ma è privo del bollino Dop. Eccolo nella sequenza qui sotto…

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Il barattolo di pomodori pelati Cento in vendita in un supermercato di New York

Anziché il simbolo della Denominazione d’origine protetta, compare un generico «Certified», certificato. Ma da chi? E su quale base? Non è dato sapere. Di sicuro si sa che il prodotto è distribuito negli States dalla Cento Fine Foods Inc., sede nel New Jersey, probabilmente una filiale loghi-dop-e-consorzio-san-marzano-webcommerciale della Cento italiana, basata a San Valentino Torio, in provincia di Salerno, come dichiara il sito web della stessa società. A completare il pasticcio sull’origine, la cartina riportata in etichetta, mette in buona evidenza Cento, località emiliana in provincia di Ferrara, dove si coltivano sì pomodori, ma che nulla hanno a che vedere con i San Marzano. Fra le due località intercorrono oltre 600 chilometri.

E non è finita qui. Oltre al bollino della Dop, come stabilisce l’articolo 8 del disciplinare pubblicato sul sito del Consorzio di tutela (ecco il link da cui scaricarlo), le confezioni di vero pomodoro San Marzano devono recare anche il logo ufficiale che pubblico qui a fianco. I due simboli sono obbligatori: un prodotto che ne fosse privo non potrebbe definirsi pomodoro San Marzano. Come mai allora i «Peeled tomatoes» di marca Cento ne sono privi? Sono San Marzano oppure no? E cosa c’entra Cento?

Il caso non è unico. Anzi: sono decine i barattoli di San Marzano con etichettatura carente in vendita sul mercato statunitense. E questo, purtroppo, conferma la scoperta del New York Times: a fianco dei pelati Dop ma non troppo confezionati in Usa, ve ne sono parecchi che arrivano dall’Italia. Non servono indagini sofisticate per scoprirli, basta fare un tour su internet. In alcuni casi, addirittura, la denominazione è entrata a far parte del marchio, anche se sulla confezione non compaiono i loghi di legge. È il caso ad esempio de La Regina di San Marzano e La Bella di San Marzano che etichettano con questa denominazione non soltanto i pomodori pelati, ma pure fagioli, fagiolini e conserve varie.È lecito? E il Consorzio di tutela cosa pensa? Chissà… Mi riprometto di accertarlo.

  • La Bella San Marzano

Non si tratta comunque di casi isolati. Ne ho scoperti altri, addirittura sotto i riflettori di un evento che sta catalizzando l’attenzione mondiale sul pianeta alimentazione. Ne parlerò presto. Tenetevi forte…

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FATTI

Oltrepò pavese: un’altra maxi truffa sul vino

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Oltrepò-Paverse-Vino-contraffatto

Scoperta nel cuore dell’Oltrepò pavese una frode con cui si sarebbe spacciato vino contraffatto per vino bio, Doc e Igt. Nel mirino la Cantina Sociale di Canneto.

Ci risiamo, dopo la spinosa questione del Pinot Grigio che aveva coinvolto qualche anno fa la Cantina di Broni, si abbatte sull’Oltrepò pavese un’altra tegola. A finire nel mirino di Carabinieri e Guardia di Finanza questa volta è la Cantina Sociale di Canneto Pavese. L’inchiesta, coordinata dalla Procura di Pavia, riguarda un nuovo presunto scandalo sul vino contraffatto ed è sfociata questa mattina con l’esecuzione di sette misure cautelari, delle quali cinque ai domiciliari e due con l’obbligo di firma. Le persone coinvolte sarebbero ritenute responsabili a vario titolo e in concorso tra loro di associazione a delinquere finalizzata alla frode in commercio e contraffazione di indicazioni geografiche o denominazione di origine di prodotti alimentari. Una tegola di quelle che fanno male sulla testa di uno dei principali territori del vino in Italia già lacerato al suo interno da una lotta fratricida che vede su fronti contrapposti il Consorzio Vino Oltrepò Pavese da un lato e il  Distretto dell’Oltrepò Pavese dall’altro.

Secondo gli inquirenti, gli arrestati avrebbero spacciato per Doc e Igt vini di qualità inferiore, prodotti con uve non certificate come biologiche o addizionati con aromi o anidride carbonica.

Al centro dell’indagine, partita anche grazie alla segnalazione di altri viticoltori della zona, figurano in particolare i vertici della Cantina Sociale di Canneto Pavese che, con la complicità di enologi di fiducia, avrebbero messo in commercio vino contraffatto per quantità, qualità e origine attraverso un complicato quanto diabolico sistema di alterazione.

Le attività delle indagini, partite nel settembre 2018, hanno evidenziato un consistente “ammanco di cantina”, ovvero una differenza tra la quantità di vino etichettabile con denominazioni pregiate e l’effettiva disponibilità nelle cantine del medesimo vino. La quota mancante sarebbe stata sostituita con vino di qualità inferiore, alterato e venduto poi come Doc e Igt dell’Oltrepò Pavese, per un giro d’affari che ha sfiorato il milione di euro e oltre 1 milione 200 mila litri di vino contraffatto. Con l’aggiunta di profumi specifici ricostruiti attraverso lo zucchero invertito (un mix di glucosio e fruttosio in parti uguali con tracce più o meno importanti di saccarosio, di anidride carbonica, aromi e mosto rettificato) , tutti prodotti vietati dalla normativa, si è riusciti a conferire al vino sentori molto simili a quelli dei vini oltrepadani.

Secondo Mario Venditti, procuratore aggiunto di Pavia che sta seguendo le indagini, rispetto a fatti del recente passato che hanno coinvolto aziende del territorio che vendevano come Pinot vini di altra natura, nella vicenda attuale c’è qualcosa in più, c’è il miracolo dell’acqua trasformata in vino. “Dispiace che l’Oltrepò pavese, una zona vocata alla produzione di vini di pregio, sia ridotta in questo stato”, ha detto Venditti.

Ma le indagini non hanno riguardato solo il territorio oltrepadano. Oggi sono state effettuate perquisizioni in altre zone della Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna e Trentino Alto Adige.

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TAROCCHI e FALSI

Spunta il Parmigiano Magiaro. Le 5 domande che aspettano una risposta

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Dante Bigi

Dante Bigi

Parmigiano Magiaro. Ungherese. La denominazione di vendita è «Formaggio a pasta dura stagionato», la marca Il Magiaro, con una ulteriore classificazione: «Gran selezione». Un tarocco come tanti, del Grana Padano o addirittura del Parmigiano Reggiano. Una fra le innumerevoli imitazioni che affollano i banconi dei supermercati italiani e cannibalizzano gli originali. In questo caso però c’è di più. Il formaggio arriva dall’Ungheria, ma a confezionarlo e commercializzarlo è un grande caseificio italiano, assurto agli onori delle cronache per essere stato acquisito dalla multinazionale francese Lactalis. Si tratta della Nuova Castelli di Reggio Emilia, il maggior esportatore di Parmigiano Reggiano Dop. Il fondatore, Dante Bigi, l’aveva ceduta nel 2014 al fondo inglese Charterhouse dopo essere stato raggiunto da un avviso di garanzia per un’inchiesta su una presunta frode alimentare. Gli inglesi hanno monetizzato l’investimento la scorsa primavera, rivendendola al colosso controllato dalla famiglia Besnier.

Ora spunta questa novità, il Parmigiano Magiaro. Sinceramente non saprei dirvi se la commercializzazione del tarocco sia precedente o successiva all’arrivo della nuova proprietà. Ma poco importa: conta quel che sta accadendo ora.

NIENTE LISOZIMA NEL PARMIGIANO MAGIARO?

Parmigiano Magiaro

La scritta «Senza conservanti»

Fra l’altro quella scritta «Senza conservanti» che compare nella parte anteriore della confezione fa assomigliare dannatamente il tarocco al Parmigiano Reggiano piuttosto che al Grana Padano. I due formaggi, infatti, si differenziano fra l’altro per l’utilizzo da parte del Padano del lisozima, un «coadiuvate alimentare» o «conservante» attorno al quale si è sviluppata una lunga e stucchevole polemica fra i due consorzi di tutela. Per quel che ci riguarda, comunque, il Parmigiano non lo utilizza, mentre per il Grana è indispensabile. Questione di alimentazione delle bovine da cui proviene il latte delle due filiere: mentre le vacche del Reggiano sono alimentare esclusivamente con il foraggio, quelle del Padano mangiano, anche se non soprattutto, l’insilato di mais, ma il formaggio ottenuto da questo latte genera la cosiddetta fermentazione anomala, che porta le forme a gonfiarsi e ad esplodere. Il lisozima impedisce che questo avvenga. Il dettaglio non è irrilevante. Per taroccare il Parmigiano Reggiano bisogna caseificare latte di bovine alimentate esclusivamente col fieno.

CINQUE QUESTIONI DA CHIARIRE

Fino a questo punto ho cercato di capire cosa possa esserci dentro la confezione. Ma le domande da porsi sul Parmigiano Magiaro sono altre. E attendono una risposta urgente.

  1. Chi produce «Il Magiaro Gran Selezione» in Ungheria? Si tratta di un’azienda locale? Oppure di un operatore italiano, magari esterovestito? O di una joint venture mista italo-ungherese?
  2. Da dove arrivano i casari? Per taroccare il Parmigiano Reggiano serve l’attrezzatura ma soprattutto servono dei casari esperti, che l’abbiano fatto per anni. Sono stati inviati in Ungheria dal loro datore di lavoro italiano? E in questo caso, a quale titolo? Oppure li ha assunti un’azienda magiara?
  3. Filiera copiata: da chi? Possibile che esista al di fuori dall’Italia, una filiera simile se non del tutto uguale a quella del Parmigiano Reggiano. E se fosse così, chi l’ha allestita? Qualche produttore italiano? Con quale finalità?
  4. Per caso oltre ai formaggi arriva anche il latte col quale sono fatti? Non c’è il rischio che questa materia prima finisca nella filiera della Dop, visto che è così simile a quella del Reggiano?
  5. E i consorzi di tutela delle due Dop non hanno nulla da dire? Anziché pretendere che siano le catene della distribuzione a separare i cloni dagli originali, possibile che il Consorzio del Grana Padano e quello del Parmigiano Reggiano, non si siano posti le stesse domande che mi sono fatto io?

Non mi aspetto che qualcuno in particolare risponda ai miei interrogativi. Sono anni che punzecchio i consorzi di tutela delle Dop senza risultato. Anche se per legge spettano loro compiti di vigilanza sulla filiera la mia impressione è che siano propensi soprattutto a nascondere la polvere sotto il tappeto. Salvo poi indignarsi quando scoppia uno scandalo. Io però non demordo.

 

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SPESA

Le 7 cose da sapere per non portare a tavola il falso extravergine

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Vino, carne e olio: dopo gli scandali che hanno colpito alcune fra le eccellenze del made in Italy a tavola, la fiducia dei consumatori rischia di incrinarsi definitivamente. L’indagine avviata a Torino dal pm Guariniello – e poi riassegnata alle procure di Genova, Firenze, Spoleto e Velletri – ha assestato un duro colpo alla credibilità dell’ex oro verde. Non voglio unirmi al coro che ha inondato il web sulla vicenda. Mi limito a elencare le marche finite sotto inchiesta: Bertolli, Carapelli, Sasso, Primadonna, Antica Badia, Coricelli, Santa Sabina. Le ipotesi accusatorie sono due: aver spacciato per extravergine un prodotto che non lo è e aver dichiarato in etichetta l’origine comunitaria, quando la materia prima arrivava in parte da Tunisia e Turchia. Per ora sospendo il giudizio, in attesa che gli inquirenti facciano chiarezza sugli addebiti contestati ai produttori. Mi limito a rilevare che rispetto a un paio d’anni or sono i marchi più diffusi hanno aumentato considerevolmente i prezzi di vendita al pubblico. Quindi qualcosa è cambiato. Ma di questo mi occuperò presto su Italiainprimapagina.it. Qui voglio trasferire ai lettori alcune delle scoperte fatte dal Casalingo di Voghera, per orientarsi nella giungla di etichette e confezioni. Le ho condensate i sette punti. Le 7 cose da sapere per non mettere nel carrello l’extravergine tarocco. Eccole.

Le 7 regole olio extravergine

ETICHETTE

In base alle ultime modifiche regolamentari accolte dalla Commissione europea, l’origine dell’olio extravergine deve comparire nello stesso campo visivo della marca e della denominazione di vendita. Quindi nel fronte dell’etichetta. Si tratta di una novità importante che può essere risolutiva per capire cosa si sta comperando. Ove la materia prima sia nazionale, compare di solito la classificazione: «100% italiano». In alternativa: «Ottenuto da oli extravergini originari dell’Unione europea», oppure: «Miscela di oli di oliva originari dell’Unione europea e non originari dell’Unione europea».

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MARCA

Brand italiano non significa assolutamente che il prodotto sia nazionale. Né garantisce nulla sulla qualità intrinseca dell’olio, come dimostra l’ultimo scandalo dell’extravergine che non era extravergine. Gli elementi per decidere quale prodotto acquistare sono altri e per di più vanno combinati assieme.

MADE IN ITALY

La dicitura made in Italy di per sé non garantisce niente. Va tradotta liberamente con: «lavorato in Italia». Non significa che l’olio sia nazionale e tantomeno che si tratti di un prodotto di qualità. Fra l’altro il ragionamento è valido anche in attività produttive diverse dall’alimentare, i tessuti e le calzature ad esempio.

DOP & IGP

Per andare sul sicuro si possono acquistare gli extravergine Dop, vale a dire a Denominazione d’origine protetta, oppure Igp (Indicazione geografica protetta). In tutto sono 43, dei quali 42 Dop e una Igp, l’Olio Toscano. In genere questi prodotti hanno un prezzo di vendita superiore agli altri extravergine, ma offrono caratteristiche organolettiche uniche. Si pagano di più, a fronte però di una qualità superiore e dell’unicità che deriva dal loro legame con i territori di produzione, regolato da rigidi disciplinari.

PREZZI

Sui prezzi bisognerebbe scrivere un trattato. Per non annoiare i lettori mi limito a fornire un consiglio valido sempre: in presenza di valori bassi, vale la pena di consultare i listini pubblicati regolarmente e aggiornati con cadenza settimanale da Ismea e Unaprol. È possibile verificare anche le quotazioni internazionali oltre a quelle praticate sulle maggiori piazze italiane. Ove il prezzo al litro dell’olio fosse inferiore a quello all’ingrosso registrato sui mercati internazionali, quello che state acquistando non è extravergine, a meno che non si tratti di un’offerta «sotto costo» che però, in genere, è segnalata come tale.

BANCONI

Occhio alla disposizione delle bottiglie sui banconi dei supermercati. Può accadere che l’olio tarocco sia mischiato a quello italiano e il vergine o il semplice olio d’oliva si trovi assieme all’extravergine. In questo caso non sempre è d’aiuto il prezzo: alcuni player offrono prodotti «ben vestiti», con confezioni accattivanti e tali da richiamare una qualità superiore del contenuto. Non lasciatevi ingannare e leggete con la massima attenzione l’etichetta.

CERTIFICAZIONI

Infine le certificazioni. Ce ne sono di tutti i tipi e possono riguardare sia la qualità o l’origine del prodotto in sé, sia il sistema utilizzato da produttore. In quest’ultimo caso non garantiscono praticamente nulla sull’olio. A volte, per scoprirlo, è necessario fare un’indagine sul web e parlare con l’ente certificatore. Se avete dei dubbi, in questo caso come in altri, non esitate a scrivermi alla casella di posta elettronica attilio.barbieri@ilcasalingodivoghera.it.

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