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SPESA

Le 9 regole d’oro per fare la spesa tutta italiana e senza fregature

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Maccheroni venduti per italiani ma che di tricolore hanno solo la confezione, prosciutto made in Italy giunto fresco dalla Germania, formaggio non formaggio, riso d’autore che non lo è. Il carrello della spesa degli italiani si riempie di inganni.Cibi abilmente confezionati in modo da sembrare nazionali, ma che dentro le confezioni racchiudono la legione straniera della tavola.

Già in passato ho compilato diverse guide per i lettori del blog, destinate ad aiutarli nella scelta degli alimenti veramente italiani. Dopo anni di indagini fra i banconi della grande distribuzione, sono maturi i tempi per aggiornarle. Ho fatto numerose scoperte che mi piace condividere con chi mi segue. Ecco un vademecum in 9 punti che parte da alcuni esempi, per rendere più facili i meccanismi alla base degli inganni di cui siamo vittime ogni volta che ci rechiamo a fare la spesa.

PRIMA REGOLA: MARCA ITALIANA NON SIGNIFICA PRODOTTO ITALIANO

La madre di tutte le fregature è proprio questa. Diamo per scontato che un marchio italiano sia fatto per forza con prodpotti italiani. Non è assolutamente vero. A prescindere dai brand acquistati negli ultimi vent’anni da gruppi stranieri – ricordo fra i tanti Bertolli, Carapelli e Sasso finiti alla spagnola Deoleo e Galbani, Cademartori e Parmalat ai francesi di Lactalis – anche gli alimenti confezionati nel nostro Paese da aziende tuttora italiane contengono ingredienti in arrivo da tutto il mondo. Mai dare per scontata la provenienze di quel che ci accingiamo a prendere dallo scaffale. Oltre 8 referenze alimentari su 10 etichettate come italiane non lo sono.

SECONDA REGOLA: OCCHIO A BANDIERE E COCCARDE TRICOLORI

Il simbolo in assoluto più alto dell’italianità, la bandiera tricolore, è utilizzata a sproposito sulle confezioni. Vi sono centinaia di prodotti che lo appongono sulle confezioni, ma senza che il contenuto abbia un legame stretto o lasco con il Belpaese. Nastrini e coccarde si traducono semplicemente in specchietti per le allodole capaci di trarre in inganno la stragrande maggioranza dei consumatori.Quando sono stampati su una confezione non prendeteli mai sul serio. Capitano pure i casi come quello della pasta Divella, che nel marchio ha inserito l’immancabile nastrino bianco, rosso e verde e un medaglione dove compaiono i trulli pugliesi. Non si tratta di una pasta 100% italiana. Altro caso di scuola è quello della pasta De Cecco, che utilizza sia la bandierina tricolore, sia la scritta Made in Italy, ma che per stessa ammissione del produttore è frutto di una miscela di farine provenienti da tutto il mondo. Lo dichiarò l’azienda idi Fara San Martino n alcune pagine pubblicitarie fatte pubblicare sui maggiori quotidiani quando infuriava la polemica sul Glifosato, un erbicida utilizzato dai canadesi in fase di preraccolta del grano duro.

TERZA REGOLA: MADE IN ITALY NON SIGNIFICA PIU’ NULLA

Al pari del tricolore anche la dichiarazione «Made in Italy», non attesta niente. Men che meno che il prodotto sulla cui confezione compare sia italiano al 100%. I casi sono tantissimi. Oltre ai maccheroni De Cecco, è clamoroso il caso dei salumi prodotti dai Fratelli Beretta di Barzanò, in provincia di Lecco. Sulla vaschetta compaiono in bella evidenza, sia il tricolore sia la scritta magica: Made in Italy. Ma il prosciutto non è italiano. Per stessa ammissione del direttore marketing del salumificio lecchese, Enrico Farina, il prosciutto cotto «made in Italy» con il tricolore non è italiano, in quanto la dicitura è «riferita al processo di lavorazione ed alla sua ricetta tradizionale e non alla materia prima, non necessariamente italiana». Questo è consentito dall’articolo 60 del Codice Doganale della Ue, intitolato proprio «Acquisizione dell’origine».

«Le merci alla cui produzione contribuiscono due o più Paesi sono considerate originarie del Paese in cui hanno subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata». 

QUARTA REGOLA: CONTROLLATE SEMPRE LA DENOMINAZIONE DI VENDITA

Un’altra trappola sta nelle cosiddette denominazioni di vendita descrittive, che sostituiscono quelle classiche. Un esempio per capire meglio il meccanismo è quello delle Fette Morbidissime marca Camoscio d’Oro di cui ho già parlato ampiamente sul blog (qui l’articolo). Da nessuna parte sulla confezione è scritto che si tratti di formaggio, anche se i consumatori le acquistano come tale, visto che l’immagine sulla confezione lo lascia supporre. Ma siccome il prodotto utilizza un additivo, il carbonato di calcio, proibito nei formaggi, il produttore, la francese Savencia, ha fatto ricorso alla denominazione di vendita descrittiva: «Specialità lattiero casearia», accettata dalla regolamentazione europea. Dunque le Fette Morbidissime sono un non formaggio.

QUINTA REGOLA: ATTENZIONI ALLE DEFINIZIONI NON CODIFICATE

Gli scaffali della grande distribuzione rigurgitano di alimenti che utilizzano, oltre alla denominazione di vendita obbligatoria, definizioni di fantasia. La più classica e tuttora molto diffusa – anche se un po’ in declino rispetto al recente passato – è naturale. Yogurt naturale, biscotti naturali, lievito naturale. Fra le new entry in questa particolare area delle furbate dell’industria di trasformazione, segnalo l’olio extravergine d’oliva integrale. che in realtà non esiste, perché non rientra nelle classificazioni previste, che sono: olio d’oliva, olio vergine d’oliva, olio extravergine, olio lampante e olio di sansa.  Il produttore, Costa d’Oro, per aggirare la norma lo ha battezzato L’integrale. Come se si trattasse di un’indicazione nutrizionale, uno slogan.

SESTA REGOLA: OCCHIO ALLE CONFEZIONI UGUALI

Bottiglie, vaschette, pacchi molto simili se non praticamente identici tranne che per alcuni particolari, contengono spesso alimenti molto diversi fra loro. Parliamo sempre di olio d’oliva. La Carapelli (proprietà della spagnola Deoleo a sua volta acquisita da un fondo inglese) ha di recente ridisegnato molte bottiglie dell’olio extravergine, creando una nuova linea che nella percezione del consumatore dovrebbe essere di qualità superiore. Peccato che contenitori molto simili, identici comunque per la forma, contengano oli diversissimi. come nel caso dell’Oro Verde (100% italiano) e del Nobile (origine Ue).

SETTIMA REGOLA: FIDATEVI SOLTANTO DEI PRODOTTI CHE SI DICHIARANO 100% ITALIA

I falsi cibi made in Italy ricorrono come abbiamo visto a dei trucchi per qualificarsi come tali agli occhi del consumatore. Fidatevi soltanto di quelli che invece dichiarano l’origine 100% Italia. I produttori che utilizzino esclusivamente ingredienti nazionali hanno tutto l’interesse a farlo capire chiiaramente ai consumatori perché il made in Italy è un valore aggiunto molto elevato. Non esiste caso di un’industria di trasformazione che impieghi solo materie prime italiane e non lo dichiari chiaramente in etichetta.

OTTAVA REGOLA: OCCHIO ANCHE ALLE IGP

Le Indicazioni Geografiche Protette (IGP) a differenza delle DOP (Denominazione d’Origine Protetta) non garantiscono nulla per quel che riguarda l’origine degli ingredienti. Fra quelle più diffuse soltanto la Finocchiona Toscana Igp ha un disciplinare che vincola i produttori a impiegare suini locali. Quasi tutte le altre, dalla Bresola della Valtellina allo Speck dell’Alto Adige sono fatte a partire da carni importate. Perfino la rinomata Pasta di Gragnano Igp è ottenuta nella stragrande maggioranza dei casi da semole di grano duro straniere. Non a caso chi impiega quelle italiane lo dichiara in etichetta.

NONA REGOLA: INFORMATEVI SU TUTTO, NON DATE MAI NULLA PER SCONTATO

Per evitare le fregature è bene informarsi sempre su quel che portiamo a tavola. Mai fermarsi alle etichette. Clamoroso il caso del riso Carnaroli. Un decreto del governo italiano, reiterato ogni anno dal 2014 dai Ministeri delle Politiche Agricole e dello Sviluppo Economico, ha introdotto un meccanismo per semplificare (semplificare!) l’etichettatura del riso. Così varietà che appartengono alla stessa famiglia possono essere etichettate nel medesimo modo. Il riso Carnaroli che si trova in vendita è in realtà Karnak, Carnise o Poseidone, varietà più resistenti e pure più produttive che però sono soltanto lontane parenti rispetto al Carnaroli puro. Fanno eccezione il Carnaroli Dop e il Carnaroli da Carnaroli Pavese, sottoposti a disciplinari rigorosissimi e nel caso del cereale coltivato nella nostra provincia, alla certificazione Iso 22005 con controlli su tutta la filiera, dalla semente ai campi, alle pilerie, fino al prodotto finito.

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PREZZI

Metano auto fino a 2 euro al kg. Ma non c’è alcun complotto

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Dalla scorsa estate il prezzo alla pompa del metano per auto ha iniziato a salire. Da 0,977 euro  di giugno il prezzo medio (fonte Assogasmetano.it) è salito a 1 euro nel mese di agosto e a 1,244 a settembre. E ad ottobre i rialzi sono proseguiti provocando una situazione inedita per i possessori di auto alimentate a gas naturale: fra un distributore e l’altro i prezzi variano in una forchetta che va da 0,98 fino a 2,04 euro. E sui gruppi social dedicati al tema si è scatenata una vera e proprio gara a chi la sparava più grossa. «Ci vogliono strangolare», scriveva ad esempio Antonietta, «sarà il colpo di grazia. Così ci fanno morire». Chi voglia strangolare i metanautisti non è dato sapere. Ma come in tutte le esplosioni complottiste lanciato il sasso basta poco per provocare lo tsunami a base di dietro9logia.

«È il governo che fa salire i prezzi, ho visto un cartello appeso su una pompa di metano in Emilia. Il gestore ha scritto: “Sono costretto a chiudere dopo che il governo ha aumentato i prezzi del metano”», rispondeva imbufalito Salvatore. Chiosando: «Ecco chi ci vuole morti!», aggiungendo una sequela di aggettivi irriferibili.

NON È IL GOVERNO A FARE I PREZZI

Ma non è finita qui. Antonio, che di mestiere fa il camionista e pare saperla lunga (pare soltanto, però), dice che basta poco per capire come mai il prezzo sia salito così tanto e vi siano differenze enormi da una pompa all’altra. «Chiedete alla Snam. Loro trattano tutto il metano che si vende in Italia. Non possono non saperlo». In realtà si tratta delle solite parole in libertà che alimentano però una marea di bufale, come abbiamo sperimentato in questi mesi con il Covid e i vaccini. Intanto non è il governo a stabilire i prezzi del metano. Nessun governo può farlo in nessun Paese del mondo. Le quotazioni del gas naturale sono il frutto dell’incontro fra domanda e offerta. E siccome la domanda in questi mesi eccede di molto l’offerta i prezzi salgono.

Ma dove salgono? È presto detto: sulle piattaforme internazionali dove si negozia il gas metano. La più importante della quali si trova in Olanda e si chiama TTF, acronimo che sta per Title Transfer Facility ed è l’indice di borsa del gas naturale sul mercato dei Paesi Bassi.

prezzo metano all'ingrosso

Ebbene i contratti negoziati sul TTF si sono impennati. Tantissimo. In un anno il costo di un megawattora equivalente (l’unità di misura utilizzata) è passato dai 15,025 euro del 12 ottobre 2020 ai 116 euro di inizio ottobre 2021, pochi giorni fa. Un rincaro impressionante, pari al 672%. E lo si capisce immediatamente guardando il grafico che pubblico qui sopra.

DA 0,90 A OLTRE 2 EURO AL CHILO. POSSIBILE?

 

Nicol Venura

Nicola Ventura

Spiegato il motivo dei rincari non resta che affrontare l’altra pietra dello scandalo: «Com’è possibile che ci siano differenze di prezzo così grandi?», si chiedeva e mi chiedeva Fabrizio, aiutante di un gestore in Oltrepò. «Non può essere possibile», rincarava, «ci dev’essere per forza sotto qualcosa. Non puoi pagare lo stesso carburante 0,90 al chilo in una pompa e 2 euro in un’altra». E invece è possibile. Tutto dipende dal contratto sottoscritto dall’insegna o dal gestore con i fornitori di metano, come mi spiega Nicola Ventura, autore del sito Ecomotori.net, la bibbia dei metanautisti. «Le differenze di prezzo fra un distributore e l’altro si spiegano con la natura dei contratti», dice, «alcuni gestori hanno stipulato contratti a prezzo fisso con i fornitori di metano e quindi stanno pagandolo a un prezzo concordato in partenza. Altri gestori, invece, hanno sottoscritto contratti indicizzati al valore del gas naturale negoziato sulla piattaforma olandese Ttf. E quindi lo pagano molto di più».

metano prezzi alla pompa

 

LA SNAM NON C’ENTRA NULLA

Dunque nessun complotto. «Secondo i nostri calcoli il prezzo massimo teorico alla pompa dovrebbe attestarsi su 1,80 euro al chilogrammo per il mese di ottobre», aggiunge Ventura, «anche se credo che le quotazioni internazionali del gas naturale siano destinate a sgonfiarsi. Quindi non resta che aspettare per tornare a rifornirsi a prezzi sostenibili per le tasche di chi viaggia a metano».

Dimenticavo: la Snam non c’entra nulla con i prezzi del gas. Gestisce la rete italiana del gas, fatta dei tubi che lo trasportano e realizza anche distributori di metano ma non li gestisce, né vende metano.

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PRODOTTI

Birra senza glutine ma con tanto gusto

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birra scura
Con l’arrivo sul mercato della Stout della Cri del Birrificio Griz, si amplia la famiglia delle scure “gluten free”.

Da qualche tempo vedo sempre più spesso sui banconi di super e ipermercati bottiglie di birra senza glutine. Alcune le ho anche acquistate e bevute e devo dire che non mi sono pentito di averlo fatto. Quasi tutte, con poche eccezioni, sono più che bevibili. Alcune non hanno nulla da invidiare alle bionde e alle scure più apprezzate.

birra La Stout della Cri

La Stout della Cri

La curiosità di capire qualcosa di più su questa nicchia di mercato che però è in rapida espansione, mi è venuta inciampando sulla notizia di una nuova entrata, La Stout della Cri del birrificio Gritz di Erbusco, Brescia, fondato nel 2015 da Claudio Gritti,  è unico birrificio artigianale italiano specializzato nella produzione senza glutine. In questo caso si tratta di una birra scura, una stout appunto, privata del glutine con un processo definito «gluten removed». La nuova etichetta, ispirata a Cristina ‒ una  amica di famiglia dei produttori che ha contribuito, grazie ai suoi consigli, alla crescita del birrificio – identifica una birra scura ad alta fermentazione, di 4,7 gradi. Io non l’ho ancora provata – lo farò appena la trovo in commercio –  ma gli assaggiatori raccontano che i malti tostati spiccano al naso, dando profumi di caffè e un leggero sentore di cioccolato. «Il sapore, accompagnato da un amaro ben bilanciato», fa sapere il produttore, «è deciso e piacevole al palato. La birra presenta un colore tendente al marrone scuro, con una schiuma cremosa e persistente».

IL PROCEDIMENTO

La Birra da Ris

La nuova stout del birrificio di Erbusco viene deglutinata. Segue cioè  il tradizionale processo produttivo e solo alla fine adotta un accorgimento, con l’inserimento di un enzima, che assorbe gran parte di glutine presente. Non si tratta di un dettaglio secondario. Molte delle birre gluten free in commercio, infatti, sono fatte a partire da cereali che non contengono il glutine. Ad esempio il miglio, il riso o il mais. Una delle più famose bionde senza glutine è la Birra da Ris del birrificio svizzero Appenzeller, ma chi se ne intende ci ha segnalato puree la Brewdog Vagabond Pale Ale deglutinata al pari della Stout della Cri. L’elenco delle birre artigianali senza glutine è lungo ma non me la sento di annoiarvi.

Vi segnalo invece, fra le etichette commerciali che si trovanobirre Peroni Perlenbacher Moretti più facilmente nella grande distribuzione le Peroni  e Moretti senza glutine. E pure la Perlembacher Free From glutine che si trova nei punti vendita Lidl. Forse la più conveniente di tutte.

Fra le birre gluten free che ho bevuto di recente ricordo la Theresianer senza glutine che mi ha colpito per la profondità di gusto e la morbidezza. Una lager non filtrata, prodotta dall’etichetta di Martino Zanetti, che conserva i caratteristici aromi di luppolo e lieviti.

Da oggetto del desiderio, quasi introvabile, le birre per celiaci stanno diventando un prodotto reperibile con facilità almeno nei grandi supermercati e negli iper. Per le bionde e le scure artigianali gluten free, invece, è quasi sempre necessario far capo direttamente al produttore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[Foto in evidenza di Luis Wilker Perelo WilkerNet da Pixabay]
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SPESA

Tre cosa da sapere per fare la spesa senza prendere la multa

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Fare acquisti è diventato un affare serio. Soprattutto nei comuni situati all’interno delle zone rosse, introdotte dalle ultime disposizioni in materia di contenimento della pandemia. In pratica è consentito uscire dal proprio domicilio soltanto per comprovate esigenze oggettive, come quella di acquistare generi alimentari o beni di prima necessità. Le attività che possono continuare ad operare anche nelle zone rosse sono incluse nell’allegato 23 al Dpcm (Decreto del presidente del Consiglio dei ministri) emanato il 3 novembre 2020.

Eccole…

Alimentari e bevande venduti in ipermercati, supermercati, discount di alimentari, minimercati ed altri esercizi non specializzati
Surgelati nella grande distribuzione e presso negozi specializzati
Commercio al dettaglio di computer, periferiche, telefoni, attrezzature per le telecomunicazioni, elettronica di consumo, audio e video, elettrodomestici venduti in esercizi specializzati e non specializzati (dunque anche supermercati e ipermercati)
Tabacchi, sigarette elettroniche e liquidi da inalazione
Benzinai
Ferramenta, vetrai, materiali da costruzione (inclusi ceramiche e piastrelle venduti in esercizi specializzati
Sanitari (vasche da bagno, docce, saune, lavandini, bidet eccetera)
Giardinaggio: macchine, attrezzature e prodotti venduti in esercizi specializzati
Articoli per l’illuminazione e videosorveglianza, antifurti in esercizi specializzati
Librerie
Edicole
Cartolerie e forniture per l’ufficio
Abiti e calzature per bambini e neonati
Giocattoli in esercizi specializzati
Biancheria personale venduta negli esercizi specializzati
Articoli e abbigliamento sportivo e per il tempo libero, biciclette in punti vendita specializzati
Concessionarie auto e moto
Officine
Autoricambi
Farmacie e parfarmacie
Animali domestici e loro alimenti venduti in esercizi specializzati
Fioristi
Profumerie
Erboristerie
Ottici
Combustibili per riscaldamento
Saponi, detersivi e prodotti per la casa
Banchi dei mercati dedicati alla vendita di alimentari e bevande; ortofrutticoli, pesci e crostacei, fiori, piante, bulbi e fertilizzanti, profumi e cosmetici, saponi, detersivi e altri detergenti; biancheria; confezioni e calzature per bambini e neonati
Commercio online di qualsiasi prodotto non compreso nelle categorie precedenti

PICCOLI COMUNI

Ma se questi sono gli esercizi che possono rimanere aperti – e sono davvero tanti – c’è un particolare importante che né il decreto e neppure le circolari del Ministero dell’Interno chiariscono: qualora nel comune dove si risiede non sia aperto nessuno di questi esercizi, ci si può spostare? In quale misura? E per acquistare cosa? Un libro, ad esempio non rientra nella categoria dei «beni di prima necessità», dunque se nel proprio comune di residenza non ci fosse alcuna libreria, lo si può ordinare soltanto via internet. Stesso ragionamento per computer, profumi, prodotti per il fai da te, biancheria personale, fiori, alimenti per animali. Giusto per fare alcuni esempi.

Sabato 14 novembre 2020, però, il governo ha aggiornato sul proprio sito internet (Governo.it) l’elenco delle domande e delle risposte dedicate agli interrogativi più frequenti sulla materia di spostamenti nella zone rosse e arancioni. In quest’ultimo caso decade il vincolo di spostamento solo in caso di necessità, ma permane quello di restare entro il comune di residenza.

TERRITORIO «CONTIGUO»

C’è, in particolare, un quesito e relativa risposta, che modifica la questione, anche se non chiarisce fino in fondo cosa sia lecito fare e cosa, invece, resti vietato. Eccolo:

DOMANDA: posso fare la spesa in un Comune diverso da quello in cui abito?
Gli spostamenti verso Comuni diversi da quello in cui si abita sono vietati, salvo che per specifiche esigenze o necessità.

RISPOSTA: fare la spesa rientra sempre fra le cause giustificative degli spostamenti. Laddove quindi il proprio Comune non disponga di punti vendita o nel caso in cui un Comune contiguo al proprio presenti una disponibilità, anche in termini di maggiore convenienza economica, di punti vendita necessari alle proprie esigenze, lo spostamento è consentito, entro tali limiti, che dovranno essere autocertificati.

Dunque ci si può spostare dal comune in cui si ha la residenza ai comuni confinanti.  Ad esempio per recarsi in un supermercato più grande oppure in un discount, dove si possano trovare gli stessi prodotti ma a prezzi inferiori. È consentito l’attraversamento di un solo confine comunale, a meno che lo spostamento non sia per necessità. E qui l’elenco è decisamente lungo. Da una visita medica, all’acquisto di prodotti ritenuti indispensabili, ad esempio le comuni lampadine, fino all’intervento in una officina autorizzata all’assistenza sulla propria autovettura.

PRIMA NECESSITÀ

Tutto sta nell’interpretare correttamente l’espressione «beni di prima necessità». Le lampadine rientrano in questa categoria di prodotti, una scaffalatura di sicuro no. Un romanzo neppure, ma un testo di scuola sì. Al pari di un modem per sostituire quello in uso che si sia  guastato oppure i pellet per alimentare la stufa.

L’importante è compilare meticolosamente l’autocertificazione indicando nello spazio riservato alla dichiarazione il motivo dello spostamento e il prodotto che si desideri acquistare. Attenzione che non vale la regola «di già che ci sono, oltre alla lampadina acquisto la scaffalatura», visto che resta l’obbligo di spostarsi fuori dal territorio comunale sono per le compere indispensabili.

Questa limitazione genera una serie di situazioni paradossali. Innanzitutto gli abitanti dei piccoli centri, sforniti quasi del tutto di attività commerciali, sono tagliati fuori da numerosi acquisti. A meno che non li facciano su Internet. Contemporaneamente i grandi ipermercati che si trovano quasi sempre in posizione molto decentrata rispetto ai centri urbani maggiori, a mano che non sorgano in un comune confinante con quello più grande, sono condannati a vendere poco o nulla. Ecco perché il governo dovrebbe arricchire l’elenco delle domande con relative risposte, pubblicate sul proprio sito web, inserendo anche queste situazioni.

Riassumendo ecco le tre cose da sapere per evitare di essere sanzionati. Anche perché le multe vanno da 400 a 1.000 euro. Ma se lo spostamento al di fuori del proprio comune avviene in auto o in moto, l’oblazione può aumentare di un terzo, quindi da 532 euro a 1.330 euro.

LE TRE REGOLE D'ORO DEL CASALINGO DI VOGHERA

Spostarsi fuori dal proprio comune solo per i prodotti di prima necessità
Verificare se nei comuni confinanti con il proprio si vende quel che si sta cercando
Compilare l'autocertificazione indicando chiaramente i beni che si vogliono acquistare
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