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Il vino di Gerry Scotti non è ancora in vendita, ma già lo dichiarano fuorilegge

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Il vino di Gerry Scotti non è ancora sul mercato e già c’è chi lo boccia senza appello. Non per il colore, l’aroma o i sentori. Ma per l’etichetta. A darne notizia è il sito Vinialsupermercato.it, una risorsa insostituibile per seguire le novità del nettare di Bacco nella grande distribuzione. E non solo.

In sostanza le bottiglie che il popolare showman si appresta a presentare a Vinitaly 2017, sarebbero nientemeno che «fuorilegge». «L’utilizzo della parola vigna sull’etichetta dei vini di Gerry Scotti viola le normative vigenti e l’imbottigliatore rischia una sanzione amministrativa fino a 4 mila euro», sostiene Michele Antonio Fino, professore associato di Fondamenti del Diritto Europeo all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Apriti cielo: sui social media si è scatenata la bagarre. I mugugni registrati quest’inverno, quando Scotti annunciò l’iniziativa, si sono trasformati in un coro di condanna.

Un po’, francamente, me l’aspettavo. Più d’uno fra i vignaiuoli che conosco ha storto il naso alla notizia. A scatola, anzi, a bottiglia chiusa. Si tratta di un’operazione commerciale, era il ritornello che mi son sentito ripetere (chissà quale sarà la fonte, un sospetto ce l’ho). L’Oltrepò non ha bisogno di queste cose, dicevano i soliti soloni del giorno dopo. Serve qualità, concludevano solenni. L’Oltrepò degli scandali, del pinot grigio che era riesling, delle cantine storiche fallite, dei tini rovesciati nei fossi, che chiede qualità? Sì. Ma a casa degli altri.

E dire che Gerry Scotti si era presentato con grande umiltà, a febbraio, quando aveva annunciato l’operazione. «Sto pensando di prendere un vigneto e fare il vino – aveva dichiarato a La Provincia Pavese – anche se tutte le volte che devo decidere mi sudano le mani. Mi manca il coraggio». Insomma, il popolare conduttore televisivo che fra l’altro è originario di Miradolo Terme, è entrato in punta di piedi. Niente squilli di tromba, né bandiere che garriscono al vento. Eppure le idee le aveva chiare. «Penso ad un vino democratico, che deve essere buono e costare poco, perché se lo devono permettere tutti – ha raccontato in un’intervista a Radio Deejay -. Ho notato che tanti personaggi famosi hanno fatto un vino, che però costa tanto, mentre io vorrei puntare su un Barbera, un bianco da tavola e un vino frizzante per l’ospite che viene a trovarmi a casa».

Il vino democratico Scotti ha deciso di farlo con Fabiano Giorgi, produttore di gran nome della zona e presidente del Distretto del vino di qualità dell’Oltrepò Pavese.  La presentazione delle bottiglie è fissata al Vinitaly, lunedì 10 aprile 2017. L’attesa è tanta. La curiosità anche. Ma a tre giorni dall’evento arriva la stroncatura. Se ne incarica appunto il professor Fino,secondo il quale l’etichetta, letta di seguito, può trarre in inganno il consumatore: «Nato in una vigna, Mesdì, Riesling». Ma Mesdì, è il nome del vino e non il toponimo di una vigna. Sta per «mezzogiorno», in dialetto pavese lomellino.

Confesso che non ho resistito alla tentazione di punzecchiare un po’ su Facebook il professore che alla fine della discussione giudica il mio #iostoconGerry «molto italiano e poco serio». Pazienza. In compenso Fino insiste: «È pieno di vigne con nomi tradizionali anche più semplici di Mesdì. Resta il fatto che a colpo d’occhio uno vede subito (sull’etichetta, nda) Vigna e Mesdì». Sarà, caro il mio caro professore, ma Mesdì indica un complemento di tempo e non di luogo. Anche perché se si trattasse di un toponimo, andrebbe scritto: «Nato nella vigna Mesdì». Dunque nessuna «menzione» superiore. Nientre cru alla francese. Ve l’immaginate un vino che credo possa costare 5 euro la bottiglia, legato a una certa vigna di produzione?

In compenso non escluderei che la vicenda finisca in tribunale. E a maggior ragione, se questo fosse l’epilogo, approfitto per gridare ancora una volta:

#iostoconGerry

Ufficialmente il Consorzio di tutela vini dell’Oltrepò Pavese non commenta, ma una fonte interna mi anticipa l’orientamento sulla vicenda: «Nato in una vigna si riferisce al testimonial del vino, a Scotti, come spiega lo stesso presentatore. Parlare di menzione è fuori luogo».

Modificato l’8 aprile 2017 alle ore 20,05
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Le Terme di Salice a Massimo Caputi

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Massimo_caputi_Terme_di_Salice

Massimo Caputi, classe 1952, ingegnere civile, è il nuovo proprietario delle Terme di Salice, che ha rilevato all’asta martedì 13 luglio presentando un’offerta di un milione e 570mila euro. Si chiude così la vicenda del crac da 10 milioni di euro che portò alla dichiarazione di fallimento dello storico stabilimento termale da parte del Tribunale di Pavia tre anni or sono.
Pochi giorni fa Caputi si è aggiudicato il Nuovo Hotel Terme per una cifra di poco superiore ai 900mila euro.

Ma chi è il nuovo padrone delle Terme di Salice? Dire che possiede quelle di Saturnia – vera e propria meraviglia del benessere – e che recentemente ha rilevato dal Montepaschi il 47% di quelle di Chianciano è riduttivo. Senza dubbio Caputi, abruzzese di Chieti, ha competenza e capacità in abbondanza per rilanciare in chiave moderna il termalismo, dato per morto frettolosamente, assieme ai vecchi frequentatori degli stabilimenti termali. Quelli che li affollavano fino agli anni Ottanta, sottoponendosi a inalazioni, humages, nebulizzazioni e fanghi. Già, perché Caputi è un capitano di lungo corso dell’imprenditoria italiana. Negli ultimi trent’anni è transitato in molte delle aziende assurte a vario titolo agli onori delle cronache. Economiche e non solo.

DALLE STAZIONI ALLE BANCHE

Amministratore delegato di Grandi Stazioni, gruppo Ferrovie dello Stato, dal 1996 al 2002, dall’aprile dell’anno successivo al maggio 2006 è consigliere d’amministrazione della Banca Montepaschi di Siena. Nel frattempo – precisamente nel febbraio 2002 – assume la carica di amministratore delegato di Sviluppo Italia (ora Invitalia). Carica che mantiene fino all’ottobre 2005.

Massimo Caputi

Massimo Caputi, classe 1952, abruzzese di Chieti, è uno dei protagonisti indiscussi della finanza immobiliare italiana

Nel dicembre 2008 viene nominato vicepresidente del consiglio di amministrazione di Banca Antonveneta, entrata a far parte, proprio quell’anno, del gruppo Montepaschi, prima di essere incorporata dall’istituto senese cinque anni più tardi.
Dal maggio 2013 all’ottobre 2015 è vicepresidente esecutivo della Prelios, la ex Pirelli Real Estate. La salva da una fine ingloriosa, facendone una società modello.

IL SALVATAGGIO DELLA FIMIT

Consigliere di amministrazione della Luiss (2004-2007) e della Marzotto (2006-2007), qualche anno prima, per la precisione nell’agosto 2000 Caputi arriva alla Fimit, società di gestione del risparmio del Mediocredito Centrale e la salva dal disastro, raddrizzandone le attività e i conti. Vi resta fino al 2007 per poi rientrarvi l’anno successivo e guidarla fino al 2011. Nel 2001, da ceo di Fimit, lancia il Fondo Alpha, primo fondo immobiliare quotato in Borsa.

Dal 2017 Caputi è presidente delle Terme di Saturnia, acquisite da Feidos, società di specialisti di cui è il maggiore azionista, assieme al fondo speculativo americano York Capital. A febbraio 2021 rileva il pacchetto di maggioranza delle Terme di Chianciano, dove sta mettendo mano al portafoglio per un rilancio indispensabile.

IL POLO DEL BENESSERE

Ora Salice Terme. Con l’acquisto del Nuovo Hotel e dello storico stabilimento termale Caputi – che è anche presidente di Federterme – ha messo assieme i tasselli di quello che potrebbe presto diventare il principale polo del benessere d’Italia. Archiviato il vecchio termalismo sociale, basato sulle convenzioni con enti pubblici come Poste e Ferrovie – che garantivano centinaia di migliaia di clienti l’anno alle terme di tutta Italia, grazie alla diaria che copriva buona parte dei costi di soggiorno – i nuovi modelli di business per le attività termali devono mettere in gioco funzioni diverse da quella puramente curativa. La sfida per il rilancio delle Terme di Salice da parte di Caputi – conosciuto come uno dei maggiori protagonisti della finanza immobiliare italiana –  non può che partire da qui.

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La doppia fregatura degli insetti a tavola

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Foto in primo piano di Simon da Pixabay

Gli insetti rischiano di togliere spazio ai campioni del made in Italy a tavola. E costano cari come il fuoco.

La Commissione europea ha dato il via libera alla commercializzazione delle larve essiccate di tenebrione mugnaio, la tarma della farina.  Il comitato sulle piante, animali, cibo e mangimi, composto da rappresentanti degli Stati membri e della Commissione, ha annunciato il disco verde  all’atto giuridico che autorizza l’immissione sul mercato delle larve di Tenebrio molitor – questo il nome scientifico – per l’alimentazione umana. In realtà si trovano in commercio da alcuni anni, assieme a grilli, scorpioni e perfino tarantole e sono facilmente acquistabili sul web. Ora rischiamo di trovarli perfino sui banconi del supermercato.

In realtà manca ancora l’ultimo passaggio. La Commissione Ue deve emanare un atto attuativo, in pratica un decreto, che ne disciplini allevamento, lavorazione, confezionamento e vendita. Ma è questione di poco tempo anche se per l’Europa la carica degli insetti commestibili  parte da lontano, precisamente dal 1997, quando Bruxelles approvò il regolamento 258 sui novel food.

La nuova norma Ue abrogherà pure la circolare emanata nel 2018 dall’allora ministro della Salute Beatrice Lorenzin che bloccò la commercializzazione degli esapodi in Italia, proprio in attesa di specifiche norme europee (qui il link all’articolo).

L’EQUIVOCO DELLA FAO

Secondo la Fao, come ricorda la Commissione, l’uso degli insetti come alimento per l’uomo «è particolarmente rilevante nel XXI secolo» a causa del «costo crescente delle proteine animali, dell’insicurezza alimentare, della crescita demografica e della crescente domanda di proteine da parte delle classi medie». Tutti argomenti condivisibili sulla carta, ma che in realtà nascondono equivoci ed errori di valutazione. Intanto il costo delle proteine animali non è aumentato ma è sceso negli ultimi 50 anni. Inoltre quasi tutti i Paesi europei, per lo meno i maggiori, sono alle prese con problemi di denatalità. E gli esperti prevedono per il 2021 un vero crollo demografico in quasi tutta Europa. Dunque i motivi secondo i quali per la Fao è giusto mangiare gli insetti da non non sussistono.

Larve di tenebrione

Eppure per la Commissione europea bisogna trovare «soluzioni alternative all’allevamento convenzionale», perché «il consumo di insetti contribuisce positivamente all’ambiente e alla salute» e «agevola il passaggio a diete salutari e sostenibili». Una posizione che non capisco. Nei Paesi dove vermi e cavallette costituiscono da sempre una fonte di cibo, forse sarà anche così. Da noi fatico a immaginare come l’allevamento di tenebrioni possa cambiare la sorte della nostra salute. Eppure in Horizon Europe, il programma per la ricerca destinato a durare fino al 2027, «le proteine basate sugli insetti sono considerate una delle aree chiave di ricerca».

Argomenti, quelli della Ue che non condivido. Mi guardo bene dal portare sulla mia tavola una larva di tenebrione, fresca o essiccata che sia. Intanto perché mi fa ribrezzo. E poi perché la cultura alimentare è anche frutto di scelte politiche. La nostra dieta è quella che ha fatto di noi uno dei popoli più longevi del pianeta. È fatta di tradizioni millenarie che vanno difese e preservate.

IL BORSINO DEGLI ESAPODI

Senza contare che quando arrivano sulle nostre tavole gli insetti costano cari come il fuoco. Fra le tante varietà, i tenebrioni sono quelli che si pagano meno, ma nella migliore delle ipotesi costano 50 euro al chilogrammo. Volendo invece assaggiare dei grilli si può acquistare una busta da 15 grammi di ortotteri cotti e disidratati, ma bisogna spendere 5 euro. Che al chilogrammo fanno oltre 333 euro. Non parliamo delle rarità. Per una tarantola al forno, venduta in scatola, si pagano 7 euro (466 al chilo), mentre due scorpioni neri d’allevamento (3 grammi l’uno) vengono 7,10 euro. Per un chilo di scorpioni ci vogliono 1.183,33 euro. Poco meno del caviale.

Chi volesse «risparmiare» – si fa per dire –  può buttarsi sulla farina di baco da seta che costa «appena» 195 euro al chilogrammo.

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Foto in primo piano di Simon da Pixabay
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Il boicottaggio dei prodotti tedeschi? Una sciocchezza

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Gira vorticosamente su Whatsapp una catena che invita a boicottare i prodotti tedeschi. Il messaggio è scritto maluccio e i contiene parecchie imprecisioni al punto che, prendendo alla lettera le esortazioni dell’autore si rischia di danneggiare anche aziende localizzate in Italia e prodotti che escono dagli impianti situati nel Belpaese dove lavora personale italianissimo.

Ecco il messaggio. Lascio di proposito gli errori di sintassi.

FONDAMENTALE FACCIAMO IL KULO ALLA CULONA MERKEL e ai Crucchi
Considerato che la guerra è ECONOMICA , e Tedeschi e Austriaci non hanno intenzione, di aiutare coi soldi di tutti e cioè con Eurobond, i paesi più colpiti dell’area Euro come SPAGNA FRANCIA, ITALIA ecc. Soldi che servirebbero a curare malati, a comprare farmaci, a pagare medici, infermieri, sussidi , cassa integrazione, contributi ad aziende e lavoratori, ed attività commerciali oggi chiuse , e ogni misura di sostegno all’economia del nostro paese.
Visto che andiamo tutti a far la spesa, VI IMPLORIAMO di far crollare il fatturato delle aziende tedesche e austriache, i vantaggi saranno enormi. Il primo è per l’occupazione italiana, in secondoluogo le aziende italiane pagano tasse in Italia, molte multinazionali delocalizzano e non producono nulla in Italia, ma inviano solo i loro prodotti al nostro mercato, cioè non producono posti di lavoro in Italia.
Altre tramite un gioco complicato ma legale, pagano poche tasse, avendo sede ad Amsterdam o Paesi Bassi. Se le aziende tedesche che hanno dipendenti qui in Italia crollano, altre aziende italiane o di altri paesi assumeranno personale in Italia, quindi tranquilli. La Germania ha avuto un SURPLUS commerciale da quando è entrata in Europa, vantaggio riconosciuto da tutti gli economisti del mondo. Questo anche perchè la gran parte dei nostri politici son tutti senza palle. I vantaggi per le aziende NON GERMANICHE sarebbero enormi, Vi chiediamo di inoltrarlo a 20 persone, di cui 2 almeno fuori dalla vostra città, se ognuno di voi ci riesce in 5 minuti siamo a 400, in un ora a 8.000 persone circa, in un giorno raggiungiamo 192.000 contatti, quindi i numeri si fanno importanti. Massacriamo la Germania, senza missili, senza armi, ma con l’arma che è caratteristica di noi italiani e cioè l’intelligenza. vedi MEUCCI (inventore telefono), E.FERMI, Cristoforo Colombo, Leonardo da Vinci
BOICOTTIAMO TUTTI I PRODOTTI ELENCATI:
COLOSSI GRANDE DISTRIBUZIONE tedeschi:
ALDI SUPERMERCATI, LIDL, PENNY Market e DESPAR
Prodotti: BALSEN biscotti, YOGURT MULLER, KNORR SUGHI, HARIBO caramelle, Birra Paulaner, Edelweiss, Goldenbrau, Gosser (BAVARIA e Heineken olandesi) Red bull bevanda austriaca, Henkel group tedesca che detiene: DIXAN, BIO PRESTO, Perlana, VERNEL, PERSIL, Pril per lavastoviglie, Nielsen sapone piatti. GLISS per capelli, antica Erboristeria che è tutto meno che italiana, Breff detergenti prodotti cas,a VAPE antizanzare, HERTZ autonoleggio Ravensburger giocattoli, colla LOCTITE e Pritt, Schwarkopf shampoo e Neutromed saponi, Continental pneumatici, ROWENTA E VORKERK elettrodomestici, Marchio Bosch e Aeg Cucine Materiale per bagno edilizia Duravit, Grohe e Knauf, Villeroy & Bosch Wurth viti Junkers e Vaillant caldaie, Telefunken televisori, Osram e SIEMENS, colossi illuminazione, PUMA e ADIDAS, ESCADA e MONTBLANC, REUSCH e ULHSPORT abbigliamento sport e neve. LANGE & SONHE orologi, KTM moto Swaroski gioielli, SCI ATOMIC e il marchio HEAD Deustche bank -chi tiene i soldi lì ricordiamo che la banca ha varato 20.00 licenziamenti in tutto il mondo, in quanto attraversa una grave crisi di liquidità. Decisamente più sicuro tenere risparmi nelle grosse banche italiane.
Sui farmaci , si parla di salute e quindi siamo persone perbene e non ci permettiamo di toccare la Bayer ma se comprate un’aspirina in meno è meglio, per tutti..
DIFENDETE I LAVORATORI E LE AZIENDE DEL VOSTRO PAESE
Non ci rivolgiamo a tutti ma solo AGLI ITALIANI CHE VOGLIONO DIFENDERE IL PROPRIO PAESE, OGGI COME NON MAI
Buona Spesa a tutti E Forza Italia SEMPRE

In realtà non tutti i marchi elencati sono tedeschi e più che danneggiare i crucchi si rischia di fare dei danni seri alla nostra economia. Parto dall’inizio e ne cito soltanto alcuni perché se facessi l’elenco delle attività presenti da noi sarebbe lunghissimo.

Despar è un’insegna della grande distribuzione olandese e non tedesca, proprietarie della cooperativa Spar, con sede ad Amsterdam. Nel nostro Paese ha stipulato accordi di licenza con società italiane. Smettendo di acquistare nella rete Despar si buttano su una strada migliaia di nostri connazionali che lavorano nei punti vendita localizzati nella Penisola.

La birra Heineken è olandese ma quella che troviamo sugli scaffali dei nostri supermercati è interamente prodotta in Italia dove la multinazionale di Amsterdam ha ben quattro birrifici in cui lavorano quasi 2mila persone: Comun Nuovo (Bergamo), Assemini (Cagliari), Massafra (Taranto), Pollein (Aosta). Ma c’è di più. Heineken possiede alcuni fra i nostri maggiori marchi birrari: Moretti, Baffo d’Oro, Sans Souci, Dreher, Ichnusa, Messina, Von Wunster, Prinz e Cervisia. Tutti prodotti confezionati nello stivale. Come la mettiamo con queste etichette?

Henkel è in effetti tedesca, di Dusseldorf, e sforna prodotti per la pulizia della casa, per l’igiene personale, oltre ai collanti Loctite, Pritt, Super Attak e Pattex ma è attiva nel da noi con 5 stabilimenti da cui escono, fra l’altro, Dixan, Bio Presto, Perlana, Nelsen (non Nielsen come scritto nel messaggio) e Vernel. Nel 2016 i lavoratori italiani del gruppo tedesco erano 1.100.

Altro svarione grossolano riguarda i televisori a marchio Telefunken che dal 2006 sono prodotti su licenza dalla turca Profilo Telra Elektronik e distribuiti da noi da un’altra società turca, la Vestel. In questo caso la Germania e i tedeschi non c’entrano nulla

Fra l’altro non si capisce perché dalla lista nera siano esclusi i marchi dell’industria automobilistica tedesca: Mercedes, Volkswagen, Audi e Opel. Forse perché l’autore della campagna di boicottaggio gira su una vettura di queste marche? Chissà…

In ogni caso, prima di lanciare questi tormentoni, bisognerebbe chiedersi quali possano essere i danni prodotti. Ed è puerile ritenere che «se le aziende tedesche che hanno dipendenti qui in Italia crollano, altre aziende italiane o di altri paesi assumeranno personale in Italia», come scrive l’anonimo autore del messaggio. Se chiudono gli impianti localizzati nel nostro Paese se ne vanno a casa migliaia di lavoratori. Punto.

Fra l’altro chi ha lanciato il boicottaggio ignora del tutto che Germania e Olanda sono fra i maggiori esportatori nella Penisola di materie prime alimentari che la nostra industria di trasformazione lavora e vende con marchi italianissimi.

Forse, anziché lanciare anatemi sarebbe meglio invitare i nostri consumatori a cercare i prodotti 100% Italia. È più facile, si è sicuri di privilegiare il lavoro e la creazione di ricchezza sul suolo nazionale e non si rischiano gravi danni collaterali. Ma visto il livello palesato dall’autore del messaggio, questo meccanismo gli sfugge sicuramente.

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