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TERRITORIO

Il Paniere Pavese rinasce. Su internet

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Un’ottima idea rimasta sulla carta. Nel senso letterale del termine. Questo è stato a lungo il Paniere Pavese. A tenerlo a battesimo fu l’ultima amministrazione provinciale di Pavia, guidata da Daniele Bosone. Ma l’iniziativa si fermò in pratica a un pieghevole molto spartano con la raccolta dei prodotti tipici che facevano parte del Paniere: una quindicina in tutto, di cui si trova traccia tuttora su alcuni siti che galleggiano nel mare magnum del web in attesa che qualcuno li aggiorni o li chiuda Come VisitPavia.com che riporta un elenco delle specialità alimentari locali con una descrizione in inglese (ecco la pagina). E per anni questa è stata la sorte del Paniere Pavese: un’idea, buonissima e potenzialmente molto efficace se giocata in chiave di marketing territoriale. Una selezione di prodotti tradizionali di grande qualità, legati indissolubilmente al territorio d’origine. Un’idea molto forte ma rimasta chiusa per anni in un cassetto.

LA PROVINCIA SPARISCE

Nel frattempo le Province spariscono, sostituite da enti di area vasta, che non si capisce bene cosa siano né, tantomeno, cosa facciano. Una delle numerose minchiate reil logo del Paniere Pavesenziane destinate ad entrare di diritto nell’elenco delle cose che non avremmo mai voluto vedere. Così il Paniere Pavese sopravvive quasi esclusivamente nella memoria dei pochi che ne avevano sentito parlare e riemerge di quando in quando nel corso di convegni, tavole rotonde e fiere locali. Qua e là, fa capolino il logo in qualche sparuta vetrina di paese, assieme ai pochi prodotti che ne fanno uso. La zucca Berrettina di Lungavilla, la cipolla Rossa di Breme, il salame d’oca di Mortara.

Lo confesso: ogni volta che mi imbattevo in queste tracce casuali dell’iniziativa speravo in cuor mio che si trattasse di un ritorno in grande stile. Nulla di tutto questo. Anzi: più chiedevo e più scoprivo che erano iniziative legate ai singoli produttori, i quali avevano intuito le potenzialità di un marchio ombrello locale e continuavano a utilizzarlo anche se dietro non c’era nulla.

IL PORTALE DI E-COMMERCE

Ora la sorpresa. Il Paniere Pavese spunta in grande stile sul web (qui il link). Addirittura con un sito di e-commerce ben organizzato, facilmente navigabile e molto efficace nella grafica. I quindici prodotti iniziali sono diventati oltre sessanta, anche se alcuni, come le ciliegie di Bagnaria sono acquistabili soltanto durante la stagione di raccolta (e non potrebbe essere altrimenti). Alla sparuta pattuglia delle specialità originali se ne sono aggiunte di nuove assieme a una selezione di vini e spumanti dell’Oltrepò pavese, se capisco bene legati al Distretto dei vini di qualità guidato da Fabiano Giorgi.

Su Panierepavese.it tutto è facilmente acquistabile ed è prevista anche la registrazione come cliente Vip: con 19,90 euro si azzerano i costi di spedizione per un anno. Insomma un sito ben fatto. D’altra parte il budget lo consentiva. La Camera di Commercio di Pavia ha finanziato l’iniziativa con 17.000 euro, come si desume dal riepilogativo pubblicato sul web dall’ente pavese che riassume le erogazioni all’economia reale per il 2016 (eccolo). I soldi, a mio parere spesi bene, sono stati concessi all’Associazione Paniere Pavese, guidata da Filippo Chiesa Ricotti, che ha raccolto la sfida di non far morire l’iniziativa alla soppressione della provincia.

L’ASSOCIAZIONE GUIDATA DA CHIESA RICOTTI

“Il marchio Paniere Pavese è di proprietà dell’omonima associazione – mi spiega Chiesa Ricotti – nell’ultimo periodo la Provincia aveva budget ridotti per promozione e finanziamenti. Rimane uno stretto rapporto con l’amministrazione provinciale, divenuta nel frattempo area vasta, e con la Camera di commercio di Pavia che sono le due istituzioni del territorio che conservano il compito di promuovere le attività di artigiani e agricoltori”.

“L’Associazione Paniere Pavese si occupa di promuovere i prodotti, fare cultura enogastronomica – aggiunge Ricotti – partecipare a fiere e mercatini e organizza attività assieme ai comuni e alle associazioni di categoria. Presto sul sito arriveranno anche delle schede dettagliate sui produttori e si aggiungeranno ulteriori prodotti in vendita”.

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MANCA LO STORYTELLING

In effetti manca quasi del tutto il racconto delle specialità vendute, che rappresenta l’elemento decisivo per legarle indissolubilmente al territorio e riaffermarne l’unicità. Trovo giusta la scelta di privilegiare un canale di vendita diretta rispetto ad esempio alla grande distribuzione che non è attrezzata per valorizzare le specificità territoriali. Resta però da approfondire la dimensione sociale delle eccellenze poste in vendita. Che rappresenta fra l’altro il terreno su cui andrebbe giocata la sfida del marketing territoriale per il rilancio dell’Oltrepò. Un terreno ancora quasi del tutto vergine su cui gli operatori economici faticano ad avventurarsi. Penso a ristoratori, albergatori, titolari di agriturismi, commercianti. Le stesse Terme di Salice. Oltre alle amministrazioni comunali. La rivoluzione dell’unicità di cui parla l’assessore regionale all’Agricoltura Gianni Fava, parte da qui.

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Oltrepò Pavese

Esiste ancora la casalinga di Voghera?

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la casalinga di Voghera

C’è ancora la casalinga di Voghera? Le consumatrici vogheresi possono vantare tuttora il primato d’interesse da parte di produttori e venditori dei beni di consumo, che negli anni del boom economico le ha rese famose? Il tema è assurto agli onori delle cronache dopo il botta e risposta fra Myrta Merlino e Barbara D’Urso. La prima, in arrivo da La 7, ha sostituito la seconda alla conduzione di Pomeriggio 5, il contenitore in onda sulla rete regina di Mediaset dal 2008. E per rimarcare lo stacco rispetto alla conduzione precedente, la Merlino ha decretato la scomparsa della Casalinga di Voghera, a suo giudizio fino ad allora punto di riferimento del talk pomeridiano del Biscione. «Credo che la casalinga di Voghera non esista più», ha sentenziato in una intervista alla Stampa, «sono donne e madri come me e hanno le mie stesse curiosità e le mie stesse paure».

Barbara D'Urso e Myrta Merlino

Barbara D’Urso e Miyrta Merlino

Non si è fatta attendere la risposta di Barbara D’Urso: «Io parlo alle famose casalinghe di Voghera, alla comara Cozzolino», ha risposto piccata, «mi dispiace per chi non lo pensa, ma esistono. Anche io sono una comara».

Lo stereotipo della casalinga di Voghera, come modello delle consumatrici particolarmente sensibili alle campagne pubblicitarie risale addirittura agli anni Sessanta. Era il 1966 quando il Servizio Opinioni della Rai commissionò un’indagine di mercato in tutte le province italiane con l’obiettivo di verificare quale fosse il grado di comprensione delle cronache politiche. Le casalinghe vogheresi risultarono quelle meno inclini alla lettura critica del messaggio televisivo. E dunque più influenzabili dai messaggi pubblicitari.

ARBASINO O PLACIDO?

Le declinazioni giornalistiche di quello che da allora in poi divenne il “cluster” per eccellenza, l’archetipo delle consumatrici e dei consumatori italiani, ha tenuto banco per decenni. Ma a chi si deve una notorietà così solida? La paternità della definizione non è univoca. In un articolo sul Corriere della Sera Alberto Arbasino, vogherese, scrittore e saggista, la rivendicò, raccontando di aver citato più volte la casalinga di Voghera negli articoli pubblicati sul settimanale L’Espresso, fin dagli anni Sessanta. Ma non tutti sposano questa ricostruzione. Secondo lo scrittore Massimo Castoldi e il lessicografo Ugo Salvi, autori del volume Parole per ricordare. Dizionario della memoria collettiva, sarebbe stato Beniamino Placido, giornalista, critico letterario e conduttore televisivo ad aver reso davvero famosa la casalinga di Voghera pubblicando una lettera al direttore di Repubblica Eugenio Scalfari, firmata “la Casalinga di Voghera”, nella rubrica di corrispondenza dei lettori del quotidiano.

Beniamino Placido e Alberto Arbasino

Beniamino Placido e Alberto Arbasino

La questione è destinata a rimanere irrisolta, visto che i protagonisti della vicenda non ci sono più. Arbasino è mancato nel 2020 e Placido dieci anni prima. Ma il tema è aperto e reso quanto mai attuale dalla sfida quotidiana che affrontano milioni di italiani. Quella della spesa. E il carrello della casalinga vogherese si tinge di giallo. Così la domanda ritorna implacabile: c’è ancora la casalinga di Voghera?

Un interrogativo che risuonerà perentorio il 5 dicembre 2023, al Teatro Sociale di Voghera, ribattezzato Teatro Valentino Garavani, appena riaperto dopo quasi quarant’anni di chiusura, dove si terrà un evento organizzato dall’Assolombarda. «Ma ci sarà ancora la casalinga di Voghera?» è il titolo del dibattito il cui sottotitolo offre una chiave di lettura molto interessante: «Riflessione semiseria dal boom economico ai nuovi consumi». E proprio nello sviluppo sociodemografico che ha accompagnato i consumi nel nostro Paese c’è la risposta a quella che assomiglia da vicino a una domanda da un milione di dollari.

LE CARTE FEDELTÀ DELLA “GRANDE I”

La soluzione forse sta nell’arena in cui si è sviluppata nei decenni l’azione della casalinga vogherese. Dapprima i negozi. Le botteghe che per fortuna sopravvivono anche se meno numerose. Poi supermercati e ipermercati. Il cambiamento epocale che ha segnato i mercati di consumo in tutto il mondo negli ultimi cinquant’anni. Come sono strettamente legate ad ogni epoca le abitudini d’acquisto delle casalinghe di Voghera. E qui sta probabilmente la chiave per decifrare il quesito sulla nostra casalinga: c’è ancora? Se esiste qualcuno in grado di rispondere con cognizione di causa è chi le ha venduto e le vende tuttora la spesa. Non i vecchi bottegai degli anni Sessanta che non ci sono più per motivi anagrafici. Ma chi l’ha accompagnata per lo meno negli ultimi quarant’anni di spesa. E c’è un unico soggetto che lo ha fatto: l’Iper d Montebello della Battaglia. Il primo punto vendita della Grande i aperto nel 1974 a Montebello – a due passi da Voghera – da Marco Brunelli, l’inventore degli ipermercati all’italiana. Il guru indiscusso delle grandi superfici.

Marco Brunelli

Marco Brunelli

È nel tesoro di dati e informazioni sull’Iper di Montebello, custodite nel database della Finiper, la holding del gruppo di Brunelli, che sta la risposta definitiva alla nostra domanda. Com’è cambiato nel tempo il modo di fare la spesa della casalinga di Voghera? C’è un modo di comperare caratteristico del Vogherese, diverso da quello rilevabile negli altri negozi a insegna “Grande i”?

Nei milioni di spese registrate negli anni con la carta fedeltà della catena di Brunelli – la Carta Vantaggi – c’è la soluzione. Non so dirvi se e come vengano custoditi i dati storici. Ma qualora fosse possibile confrontare l’andamento nel tempo delle spese fatte a Montebello della Battaglia con quelle degli altri punti vendita della Grande i, saremmo molto vicini alla risposta sulla casalinga di Voghera.

Non è tanto importante verificare il cambiamento nel tempo delle abitudini d’acquisto nel singolo negozio. Do per scontato che la spesa fatta oggi, nel 2023, sia radicalmente diversa da quella dei decenni scorsi. L’obiettivo è capire se esista una “spesa alla vogherese” nella quale si possano indentificare le scelte compiute dalla locale casalinga. E se queste differenze permangano nel tempo.

IL CASALINGO DI VOGHERA

Consentitemi, infine, una considerazione personale. Mi capita spesso, per lavoro, di indossare a mia volta i panni del casalingo di Voghera per rilevare nei supermercati della zona prezzi, offerte e assortimenti sui banconi. Passo giornate intere a raggranellare numeri che poi confronto e racconto ai miei lettori del mio blog e non solo. Ma nonostante trascorra un gran tempo a contatto con i consumatori vogheresi, non ho le certezze di Myrta Merlino. Non so dire se sopravviva e come si comporti la casalinga di Voghera. E non so neppure da cosa derivi la certezza granitica della Merlino sulla scomparsa della storica casalinga.

L’unica casalinga che non c’è più è quella in vetroresina della statua regalata al Comune di Voghera nel 2006 dall’Associazione casalinghe di Voghera, presieduta da Paola Zanin, allora molto attiva. Il simulacro a grandezza naturale è rimasto esposto fino al 2015 nel cortile della ex caserma di cavalleria, gigantesca struttura ormai cadente che ospita due grandi parcheggi. Nell’anno dell’Expo l’amministrazione comunale decise di rimuoverla e da quel che mi risulta non se ne dolse nessuno.

statua della Casalinga di Voghera

La statua della Casalinga di Voghera rimossa dal Comune nel 2015

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TERRITORIO

Tutto quello che non vi hanno mai detto sulle Denominazioni comunali

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Denominazioni comunali

Le Denominazioni comunali non sono una certificazione di origine o di qualità. I sindaci ne attestano solo il loro legame col territorio

Più approfondisco le Denominazioni comunali – in sigla De.co – e meno ci capisco. Né i miei tentativi di risalire alla normativa da cui traggono origine mi hanno chiarito le idee. Anzi, più scavo e più ho le idee confuse. Mi conforta sapere che sono in buona compagnia, anche se chi ho interpellato in questi giorni per approfondire il tema è convinto del contrario.

Ma andiamo con ordine. Le Denominazioni comunali sono nate da un’intuizione di Luigi Veronelli, giornalista, gastronomo, grande esperto di vini ma anche editore e conduttore televisivo, morto nel 2004 all’età di settantotto anni. L’introduzione nel nostro ordinamento delle De.co viene fatta risalire per convenzione alla Legge 142 dell’8 giugno 1990, che «detta i principi dell’ordinamento dei comuni e delle province e ne determina le funzioni». Ma se cercate nel testo un riferimento diretto o indiretto alle De.co perdete il vostro tempo. Non se ne fa menzione. E da quel che mi risulta non c’è legge dello Stato che citi espressamente le Denominazioni comunali.

Luigi Veronelli

Luigi Veronelli

Si fa risalire il riconoscimento delle De.co ai Comuni e in particolare al sindaco, in forza dell’articolo 2, comma 2 della Legge 142, che recita testualmente:

«Il comune è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo».

Tutto qui. E non chiedetemi a quale titolo si possa far risalire l’istituzione delle Denominazioni comunali a una formulazione tanto generica e vaga. Semmai questo spiega l’incertezza in cui galleggia tuttora il sistema delle De.co anche se, nel corso degli anni, i Comuni ne hanno registrate svariate centinaia. E più di recente alcune Regioni hanno varato leggi che ne istituiscono il Registro digitale. Ultimo in ordine di tempo quello introdotto dalla Sicilia con la legge della Regione Siciliana n. 3 del 2022. Provvedimento assurto agli onori delle cronache perché il governo – presidente del Consiglio Mario Draghi – lo ha impugnato mettendone in dubbio la costituzionalità con un ricorso alla Suprema Corte. Il riconoscimento ufficiale derivante dalla pubblicazione nel registro regionale sarebbe in contrasto  – su questo si basava il ricorso alla Corte del governo Draghi – con le norme Ue a tutela dei marchi Dop (Denominazione di origine protetta), Igp (Indicazione geografica protetta) e Stg (Specialità tradizionale garantita). La Corte costituzionale ha respinto il ricorso del governo, stabilendo nella sentenza (ecco il link) che non sussista contrasto fra uno strumento che classifichi le De.co siciliane. Il motivo? Non si tratta di un marchio che possa entrare in conflitto con Dop, Igp o Stg, ma  una mera «attestazione di identità territoriale» destinata a individuare l’origine e il legame storico culturale di un determinato prodotto tipico con il territorio comunale di appartenenza.

Vale la pena di notare che per i giudici costituzionali la potestà dei Comuni sulle De.co si può far risalire alla Legge 142 del 1990 e al Decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 142. Si legge, infatti nella sentenza:

«L’attestazione di De.co (…) viene rilasciata dai comuni i quali vi provvedono con delibera del Consiglio comunale, su proposta della Giunta comunale. Si tratterebbe di un potere esercitato in attuazione dei principi sul decentramento amministrativo, ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost. e della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) e, da ultimo, del Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali)».

LA LOBBY DEI GRANDI CONSORZI DI TUTELA

Bollini Dop Igp Stg

I bollini Dop, Igp ed Stg

L’assenza di norme nazionali che statuiscano e regolino le De.co, si deve senz’altro alla ritrosia dei governi che si sono succeduti dal 1990 in poi ad affrontare una materia controversa. Stante soprattutto l’opposizione dei grandi consorzi di tutela delle indicazioni geografiche che vi avrebbero visto l’introduzione di un nuovo marchio di qualità in concorrenza con Dop e Igp. È questo il motivo per cui non esiste un unico logo che le identifichi e al contrario ogni amministrazione comunale abbia creato il proprio. Dietro all’apparente anarchia grafica delle De.co si cela l’esigenza di non rappresentarle univocamente per evitare che entrino in rotta di collisione con le “sorelle maggiori”. Vale a dire le indicazioni geografiche europee.

Acclarato che le De.co non certificano un bel nulla (guai a pensare il contrario!) e spiegata l’assenza di una normativa che le statuisca e ne regoli in maniera univoca la concessione da parte dei sindaci, c’è un sostanziale disaccordo fra gli epigoni di Veronelli perfino sui marchi elaborati dai singoli Comuni. Secondo Gian Arturo Rota, custode dell’immenso archivio veronelliano e per 11 anni alla guida della Veronelli Editore avrebbe sbagliato il comune di Amatrice che nel concedere la De.co alla ricetta della pasta all’amatriciana ha registrato logotipo e relativo pittogramma (era il 2014) all’Ufficio marchi e brevetti dell’allora Ministero dello Sviluppo Economico. «Le De.co – scrive Rota  in un botta e risposta con un consigliere comunale di Amatrice – sono state interpretate da centinaia di comuni italiani come un marchio. NON LO SONO, sono una certificazione d’origine semplice, che ha nella delibera comunale la massima espressione burocratica, se si vuole restare fedeli all’idea originaria di Veronelli».

RICONOSCIMENTO MINISTERIALE

Ma c’è chi la pensa molto diversamente al riguardo. Parlo di Riccardo Lagorio, ritenuto fra i maggiori interpreti dell’eredità di Veronelli. In un articolo di Renato Andreolassi su Italia a Tavola del febbraio 2019, Lagorio spiega che «dopo l’adozione dell’apposita delibera con un preciso percorso storico e culturale da parte del consiglio comunale interessato, il documento deve essere sottoposto alla definitiva approvazione del ministero dello Sviluppo economico. Solo dopo questo ultimo timbro governativo si potrà parlare a tutti gli effetti di riconoscimento De.co per un prodotto agroalimentare». E quando Andreolassi gli fa notare che solo in provincia di Brescia ci sono una quarantina di De.co su 206 Comuni, Lagorio puntualizza che «quelle riconosciute dal Ministero  sono solo sette». Il chisulì, un dolce di Passirano; il fatulì – formaggio – di Cevo; il salame cotto di Quinzano; a Ponte di Legno il gnoc con la cua (gnocco con la coda); a Barbariga il casoncello Bariloca; e ancora la sopressa di Marone e infine, lo spiedo di Serle.

Alla fine riassumo in breve quello che ho scoperto: le De.co non sono un marchio, ma possono avere un marchio (logo) comunale che però non va registrato al Ministero delle Imprese (ex Sviluppo Economico), anche se la De.co andrebbe sì registrata al medesimo Ministero.

RIMPALLO DI COMPETENZE

Ah, dimenticavo. Nel tentativo di chiarirmi le idee almeno sulla competenza istituzionale della materia ho chiesto al Ministero dell’Agricoltura se esistano linee guida per il riconoscimento delle De.co. Il sindaco del comune dove abito, Godiasco Salice Terme, mi ha assegnato la guida del Comitato De.co. Ed ecco la risposta: «Il ministero non può fare linee guida per le De.co perché sono denominazioni comunali previste da leggi regionali». Curioso, visto che lo scorso anno il governo Draghi ha portato la Sicilia davanti alla Corte Costituzionale proprio perché ha approvato una legge regionale sul Registro telematico delle De.co.

E non è finita qui. Nel tentativo di capire se per caso la Lombardia, Regione in cui è situato il comune di Godiasco Salice Terme, abbia definito  le linee guida per le De.co e se esista il registro regionale, prendo contatto con l’Assessorato all’Agricoltura di Palazzo Lombardia. Nulla di tutto questo: «Regione Lombardia non ha un registro delle De.co regionali», mi sento dire, perché «la competenza è a livello dei singoli comuni».

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TERRITORIO

Dolcissima, delicata e gigantesca. È la cipolla rossa di Breme

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cipolla rossa di Breme

È gustosa ma allo stesso tempo delicata. Dolcissima, croccante e gigantesca. I bulbi scarlatti della cipolla rossa di Breme pesano in media da 600 a 700 grammi. Ma se ne trovano facilmente anche da un chilo. Per chi non l’abbia mai assaggiata, gustare per la prima volta questa cipolla è una vera scoperta. Nulla a che vedere con le dorate di cui abbondano i nostri territori.cipolla rossa di Breme

La rossa di Breme si mangia soprattutto cruda: è così che si riesce a percepirne l’ampiezza del gusto. Cruda e appena colta sprigiona una sinfonia di sapori capace di sedurre anche i palati più esigenti. E non la definiscono a caso «la Dolcissima»: giunta a maturazione ha una intensa nota zuccherina che la fa assomigliare più a un frutto che a un ortaggio. Si coltiva a Breme, un paesone della bassa Lomellina, in provincia di Pavia, alla confluenza tra i fiumi Po e Sesia. E deve proprio alla composizione sabbiosa dei terreni dove cresce le sue caratteristiche morfologiche e soprattutto organolettiche. Il limo e i sedimenti  trasportati dai corsi d’acqua nei secoli ne fatto il terreno di coltura ideale per i bulbi scarlatti di questa cipolla.

UN GUSTO ESPLOSIVO

All’assaggio la Rossa di Breme è letteralmente esplosiva, capace di sprigionare un’armonia di gusti profonda e al contempo mai invasiva. La nota dominante, infatti, è la delicatezza dei sapori che la rendono ideale sia per essere gustata da sola, sia assieme ad altri ortaggi, come le insalate. Si sposa bene anche con preparazioni complesse, in cui si richieda l’essenzialità di gusto, senza che il singolo ingrediente prevarichi gli altri.

cipolla rossa di BremePersonalmente preferisco consumarla cruda, tagliata a fette sottili, con un filo di olio extravergine di oliva e un pizzico quasi impercettibile di sale. Mi piace impiattarla a spicchi sottili, preservando il profilo discoidale del bulbo. Da sola o come guarnizione di altri piatti a base vegetale, o anche in accompagnamento a carni da mangiare fredde. Ad esempio l’insalata di pollo. Su suggerimento dell’amico Maurizio Zottarelli, giornalista e scrittore milanese, ho iniziato a gustarla sempre rigorosamente cruda, affogata in una coppa di spumante dell’Oltrepò Pavese. Rigorosamente metodo classico. Si può anche lasciare le fettine di cipolla immerse nel vino per una ventina di minuti, in frigorifero, ma non di più e servirle fredde con qualche fogliolina di mentuccia.

DENOMINAZIONE E RICONOSCIMENTI

La cipolla rossa di Breme ha ottenuto il riconoscimento De.co (Denominazione comunale d’origine) il 2 giugno 2008, dunque abbastanza di recente, se si considera che il suo recupero e la valorizzazione sono iniziati nel 1982 con la prima edizione della omonima sagra che si svolge la seconda settimana di giugno. Ma è anche un presidio Slow Food e di recente è stata inserita pure nell’elenco dei Sigilli di Campagna Amica che ne annuncia la disponibilità all’omonimo mercato di Vigevano. Nel 2022 i produttori hanno registrato il marchio collettivo.

cipolla rossa di Breme

COLTIVAZIONE

dove si trova Breme

Dove si trova Breme

Le origini della rossa di Breme si perdono nel Medioevo. La coltivazione è ancor oggi prevalentemente manuale «non molto dissimile da quella tramandata dai monaci della Novalesa ai bremesi e poi, passata di generazione in generazione, sino ad oggi», riferisce Slow Food. Le diverse fasi della coltivazione, dalla messa a dimora che avviene a settembre fino alla raccolta nel mese di giugno successivo sono molto ben descritte sul sito ufficiale Cipollarossadibreme.it a questa pagina.

LA SAGRA

Ogni anno si tiene la tradizionale sagra della cipolla Rossa di Breme, giunta nel 2023 alla 41esima edizione con un calendario gustoso fitto di appuntamenti in due diversi fine settimana dal 9 all’11 e dal 16 al 18 giugno. Nel ristorante della sagra e nei locali del paese è  possibile gustare la rossa in tutti i modi e letteralmente in tutte le salse. Da provare anche l’ottima pizza alla cipolla e il gelato alla cipolla che si trova al Bar Mafalda, a pochi passi dal tendone della sagra.
È possibile acquistare la cipolla in alcune fasce orarie nelle quali i produttori si rendono disponibili:  venerdì dalle 17,30 alle 24; sabato dalle 10 alle 12  e dalle 15 alle 24; domenica dalle 9,30 alle 24.

trasformati cipolla rossa di Breme

TRASFORMATI

Il periodo della raccolta della rossa di Breme dura circa due mesi, ma si può gustarla tutto l’anno. I produttori offrono anche i trasformati: confettura, mostarda, in agrodolce, sugo. Una vera e propria rivoluzione per un prodotto locali così legato alla stagionalità. Bravi!
Ecco l’elenco dei produttori dove potete trovare i trasformati:

PRODUTTORE TELEFONO EMAIL
Marco Aceti 335 1835470 marcoaceti58@gmail.com
Riccardo Bulgarelli 339 7716111 riccardo.bulgarelli1992@gmail.com
Stefano Epis 339 6592522 cipollarossabreme@gmail.com
Stefano Laporati  333 2832532 sabarbieri80@gmail.com
Giovanni Migliorati 335 1471689 migliorati.ferri@gmail.com
Sandro Mortarini 335 1715616 sandro.mortarini@gmail.com
Carlo Padula 338 1822898 padulacarlo@inwind.it
Luca Righetti 339 5748578 luca.righetti77@gmail.com
Giuseppe Tagliabue  335 7584437 gtagliabue@libero.it

 

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