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Eichette d’origine sulla pasta: ecco cosa troverete. E cosa non troverete

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Il 20 luglio è arrivato in Gazzetta ufficiale il decreto che rende obbligatoria l’origine della materia prima per pasta e riso. Del cereale bianco mi occuperò un’altra volta. Ora mi limito a raccontarvi cosa accadrà concretamente per i maccheroni.

TRASPARENZA SÌ, MA NON PRIMA DEL 2018

L’obbligo di indicare la provenienza del grano duro da cui è stata ottenuta la farina utilizzata dai pastifici italiani scatta 180 giorni dopo la data di pubblicazione del decreto. Quindi fino al 20 gennaio 2018 si potranno trovare il commercio confezioni di pasta senza alcuna indicazione. Questo per dar modo alle industrie di adeguare le confezioni. Dunque nessuno scandalo se prima di quella data ci imbatteremo spesso in maccheroni anonimi. Abbiamo pazientato finora. Si tratta di aspettare solo qualche mese. Nel frattempo, però, cominciamo a capire cosa ci aspetterà.

ECCO COSA PREVEDE IL DECRETO

Il provvedimento scritto a quattro mani dai ministri Calenda (Sviluppo economico) e Martina (Agricoltura) prevede una serie di casi diversi, con alcune diciture standard per identificare l’origine della materia prima. Le trovate in tabella. Il caso più facile è quello in cui il grano duro sia originario dell’Italia e sia stato molito nel nostro Paese. Già ora ci sono una quarantina di paste che dichiarano volontariamente l’origine tricolore. In quel caso l’etichetta reciterà: Paese di coltivazione del grano Italia e Paese di molitura Italia. Di fatto saranno probabilmente le confezioni di pasta che già si fanno riconoscere come 100% made in Italy a utilizzare questa formula.

Qualora invece le due fasi (coltivazione del frumento e molitura) avvengano in più Stati dell’Unione europea la dicitura prevista è: Paesi Ue. Analogamente se il grano fosse coltivato e macinato fuori dall’Europa, sull’etichetta andrebbe scritto: Paesi non Ue. C’è poi un terzo caso, quello in cui una delle due fasi avvenga nel nostro continente e l’altra ad esempio in America. In questa evenienza l’etichettatura corretta sarà: Paesi Ue e NON Ue.

IL CASO PIÙ FREQUENTE

Ma il caso più frequente sarà un altro ancora. Vale a dire spaghetti, penne e fusilli che dichiareranno come origine: Italia e altri Paesi UE. Oppure: Italia e altri Paesi NON UE. Nei nostri porti arrivano continuamente navi cariche di grano duro canadese, austriaco e ucraino che i pastai miscelano al nostro. Il decreto prevede che, qualora la pasta contenga farina di semola ottenuta da grano nazionale per almeno il 50%, si possano utilizzare queste due diciture. Saranno le scritte che ci troveremo a leggere più spesso.

ED ECCO COSA NON ACCADRÀ

Sopra: una simulazione di pasta 100% italiana. Sotto: un pacco di pasta fatta con farina canadese. Nella realtà questa seconda confezione non la troverete mai

Scordatevi invece di imbattervi in un pacco di pasta su cui campeggi un simbolo che identifichi chiaramente un Paese diverso dal nostro. Mentre i pastai ostentano l’italianità dei maccheroni prodotti con materia prima nazionale, faranno di tutto per nascondere la provenienza straniera del grano duro. Non vedrete mai una confezione con la bandiera canadese, anche se l’industria di settore importa a mani basse da Ottawa. La dicitura Italia e altri Paesi NON UE sarà ben nascosta assieme a mille altre indicazioni e quasi sicuramente non comparirà sulla parte frontale del pacco. Quindi, com’è per il latte e in parte per l’olio extravergine, bisognerà andare a cercarla. Leggendo con la massima attenzione tutto quel che c’è scritto sulla confezione.

È COMUNQUE UN PASSO AVANTI

Pur con tutti i limiti che ho appena elencato, sarà comunque un passo avanti. Mentre ora è impossibile capire da dove arrivi la materia prima impiegata dai pastai – che si sono pure incazzati per il decreto del governo – a meno che il produttore non lo dichiari volontariamente, dal 20 gennaio si potrà comunque identificare i maccheroni oriundi. E distinguerli da quelli 100% Italia.

LA COMMISSIONE UE HA PEGGIORATO IL DECRETO

Le diciture ammesse (ad esempio Italia e altri Paesi non UE) da quel che mi risulta, sono state imposte a Calenda e Martina dalla Commissione europea, durante un tira e molla durato alcuni mesi. Abbiate pazienza ma questo va raccontato. Bruxelles ha chiesto all’Italia di procedere prima con una notifica informale del decreto. Cosa che il nostro governo ha fatto in data 20 dicembre 2016. Da allora in poi è scattato un tira e molla, chiaramente pretestuoso, per ritardare l’approvazione del provvedimento. Così i due ministri firmatari hanno deciso di inoltrare la notifica formale congiunta (per pasta e riso) l’11 maggio scorso.

IL GOVERNO HA DECISO DI FORZARE POLITICAMENTE LA MANO

In realtà dal giorno della notifica ufficiale a Bruxelles, dovrebbero passare 90 giorni prima che un governo della Ue possa emanare un decreto. In questo caso Martina e Calenda hanno forzato la mano. «Abbiano scelto politicamente di non attendere, all’ennesima melina della Commissione che avrebbe rinviato ancora la risposta», mi ha  detto una fonte vicina al dossier. E hanno fatto bene! L’Eurogoverno ha un atteggiamento irrispettoso nei confronti del nostro Paese. Ogni scusa è buona per agevolare le lobby dei Paesi che esportano materie prime alimentari verso l’Italia e alle quali fa maledettamente comodo che non compaiano in etichetta.

LA BAGGIANATA DEL PROVVEDIMENTO «ANTI COMUNITARIO»

C’è pure chi, come il presidente dell’associazione Granosalus, Saverio De Bonis, è arrivato a parlare di provvedimento «anti comunitario» e di «finta etichettatura d’origine» (qui il link). Ma si tratta di una baggianata bella e buona, giustificata dal fatto che Granosalus pretende di imporre l’obbligo di indicare in etichetta le sostanze nocive contenute nella pasta, come il Glifosato – un diserbante largamente impiegato in Canada – e le muffe. Tutte, come risulta per altro dai test fatti eseguire dalla stessa associazione guidata da De Bonis, ampiamente sotto i limiti di legge. Ma anziché cercare la provenienza della materia prima, secondo Granosalus, dovremmo compulsare la tabella con i residui presenti nella pasta e qualora superassero certe soglie, diverse da quelle indicate per legge, dovremmo desumere che il produttore abbia utilizzato frumento duro made in Canada. Una follia, insomma. Peccato che il De Bonis dia del «venduto» a chiunque osi contraddirlo.

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Sentenza Ue: il gallo del Chianti non si può imitare

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bottiglie di Chianti Classico

Il gallo del Chianti è salvo. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha deciso con una sentenza storica che il simbolo del vino più noto d’Italia non può essere utilizzato sull’etichetta di altre bottiglie dal momento che rappresenta un «carattere distintivo intrinseco del marchio Chianti». Confermato il parere dell’Ufficio Ue per la proprietà intellettuale (Euipo) che aveva negato la registrazione del simbolo del gallo alla Berebene Srl.

logo gallo Berebene

Il gallo Berebene

Ad opporsi alla richiesta di registrazione avanzata dalla Berebene era stato il Consorzio di tutela del Chianti Classico ottenendo  una pronuncia favorevole da parte dell’Euipo. Ma la Berebene aveva presentato ricorso alla Corte di giustizia Ue. Ieri il verdetto.

Durissime le motivazioni della sentenza (qui il link). I giudici di Strasburgo sottolineano l’esigenza «al di là del grado di somiglianza tra i due segni, di evitare fenomeni di parassitismo commerciale. Infatti, vista l’elevata notorietà e il carattere distintivo intrinseco del marchio Chianti, il fatto di utilizzare un segno avente una certa somiglianza con esso proprio per dei vini presenta un rischio concreto che il pubblico di riferimento associ l’immagine del gallo del marchio della Berebene ai vini Chianti». E in effetti i due simboli, a parte il soggetto, si assomigliano poco. Ma la Corte Ue ha stabilito che nei consumatori si logo Chianti Classicosarebbe potuta ingenerare lo stesso confusione.

Una decisione che ribalta di fatto alcune sentenze dannose per il made in Italy a tavola. Come quella che autorizzava un’azienda agricola belga a mettere in vendita pomodori “San Marzano”, con una evocazione clamorosa ai danni della Dop Pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese Nocerino.

Vale la pena di segnalare che la Berebene Srl ha sede a Roma e francamente fa specie che una società italiana pensi di poter registrare un marchio contenente il simbolo di un vino di grande tradizione come il Chianti. I nostri prodotti – proprio a cominciare dai vini –  sono già oggetto di falsificazioni in tutto il mondo da parte di taroccatori fin troppo agguerriti. Quando le imitazioni arrivano da casa nostra sono ancora meno scusabili.

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Scoppia la guerra del pomodoro pelato

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pomodoro pelato

Puglia contro Campania: scoppia la guerra del pomodoro pelato. Dopo lo scontro sulla Mozzarella di Gioia del Colle Dop le due regioni arrivano nuovamente ai ferri corti. Questa volta per la solanacea rossa lavorata e inscatolata. A scatenare lo scontro è stata la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il 13 marzo 2021,  della richiesta di riconoscimento del Pomodoro pelato di Napoli Igp. La pratica ha già avuto il via libera dal nostro Ministero delle Politiche agricole. Ora manca soltanto l’imprimatur della Ue. Ma si tratta, a questo punto, di un passaggio formale.

Donato Pentassuglia pomodoro pelato

Donato Pentassuglia

Ai produttori pugliesi, però, non sta bene. L’assessore pugliese all’Agricoltura Donato Pentassuglia ha annunciato che la Regione si opporrà al riconoscimento. «Ci sono sessanta giorni di tempo per farlo e abbiamo quasi istruito il fascicolo», ha puntualizzato. Il motivo? Secondo i pugliesi il 90% della produzione di pelato si concentra nella provincia di Foggia. Dunque, a rigor di logica, l’Indicazione geografica protetta spetterebbe al pomodoro foggiano. Una diatriba che si trascina da almeno quattro anni ed è esplosa quando il testo con il placet del ministero è finito sulla Gazzetta Ufficiale. Ma siamo soltanto all’inizio.

IN CAMPO L’ASSOCIAZIONE CONSERVE VEGETALI

Antonio Ferraioli

Antonio Ferraioli

Sulla questione è intervenuto anche Antonio Ferraioli, presidente dell’ Anicav (Associazione nazionale industriali conserve vegetali), nata a Napoli nel 1945. «Riteniamo sia giusto fare chiarezza», ha fatto  sapere in una nota, «perché l’Indicazione geografica protetta, come si evince molto chiaramente dal disciplinare di produzione, non riguarda assolutamente la materia prima ma il prodotto trasformato, appunto il pomodoro “pelato”. Per questo motivo non si fa alcun riferimento alla provenienza del pomodoro fresco, che tutti sanno venire per la maggior parte dalla Puglia». Fra l’altro l’Igp non lega indissolubilmente l’alimento alla zona di produzione della materia prima, come accade ad esempio per Bresaola della Valtellina e Speck dell’Alto Adige che possono essere fatti a partire da carne proveniente dai cinque continenti.

Per le Dop (Denominazioni d’origine protette) devono sussistere  tre condizioni irrinunciabili:  origine del prodotto, ricetta tradizionale e luogo di trasformazione in una zona ben definita. Per le Igp bastano due di queste tre condizioni. E nel caso del Pomodoro pelato di Napoli Igp le due condizioni sono la ricetta tradizionale e il luogo di trasformazione.

TRASFORMAZIONE E MATERIE PRIME

Semmai si potrebbe discutere sul fatto che il Pomodoro pelato di Napoli Igp, da disciplinare  (qui il link), si possa produrre non soltanto nel Napoletano, ma nel «territorio amministrativo delle Regioni Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise e Puglia». Così, l’impianto di lavorazione e confezionamento potrebbe trovarsi, addirittura, in provincia di Teramo, pur sfornando il Pelato di Napoli. Ma non si tratterebbe  del primo e nemmeno dell’unico caso.

Il Prosciutto di Parma Dop, ad esempio, prevede che la zona tipica di produzione «comprenda il territorio della provincia di Parma posto a sud della via Emilia a distanza da questa non inferiore a cinque chilometri, fino ad una altitudine non superiore a 900 metri, delimitato ad est dal corso del fiume Enza e ad ovest dal corso del torrente Stirone». Dunque il vincolo dei salumifici al territorio è molto stringente. Ma il Parma Dop si può fare a partire da cosce di suini nati, allevati e macellati in Italia, provenienti però da 10 regioni italiane: Emilia- Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte, Molise, Umbria, Toscana, Marche, Abruzzo e Lazio (qui il link).

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Com’è difficile capire cosa siano le Dop e le Igp

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Dop e Igp sono le sigle che individuano i prodotti alimentari legati ai territori e alle tradizioni che questi luoghi esprimono. Un cibo a Denominazione d’origine protetta, Dop in sigla, deve rispettare tre caratteristiche:

  1. essere fatto sulla base di una ricetta tradizionale comprovata, consolidata nel tempo e strettamente legata ai luoghi in cui viene prodotto;
  2. utilizzare soltanto materie prime italiane provenienti dalle zone rigorosamente fissate dal disciplinare di produzione (spiego fra poco cosa sia il disciplinare):
  3. il luogo di produzione o trasformazione si trovi in Italia, in una zona fissata sempre dal disciplinare, solitamente uno o più comuni limitrofi

Gli alimenti a Indicazione geografica protetta, invece, devono rispettare due di queste tre condizioni. E se si eccettuano le Igp vegetali – ad esempio il Cappero di Pantelleria o la Cipolla Rossa di Tropea – di solito le due caratteristiche rispettate sono:

  1. ricetta tradizionale comprovata;
  2. luogo di produzione o trasformazione in Italia (ma non potrebbe essere diversamente).

La materia prima utilizzata nelle Igp, invece, non è necessariamente italiana e può arrivare da ogni parte del mondo., come avviene per esempio per la Bresaola della Valtellina Igp, lo Speck dell’Alto Adige Igp e la Mortadella di Bologna Igp.

Poi esistono pure le Stg (Specialità tradizionali garantite) che sono delle Igp ancora meno legate al territorio e devono in sostanza rispettare la ricetta. In tutto sono tre: mozzarella, pizza napoletana e amatriciana tradizionale.

Ecco, comunque, i tre bollini che identificano quelle che nel gergo tecnico si definiscono «indicazioni geografiche».

bollini Dop Igp Stg

Ecco i bollini di Dop, Igp ed Stg

Per semplificare, dunque. le Dop devono rispettare tre condizioni su tre, le Igp soltanto due su tre e le Stg appena una. Ma questa semplificazione è mia e vi confesso che ho impiegato anni a elaborarla nella maniera che vi ho appena esposto. Qualora un consumatore volesse approfondire sulle fonti ufficiali cosa siano Dop, Igp ed Stg ben difficilmente ci capirebbe qualcosa. Faccio alcuni esempi.

ORIGIN ITALIA

L’associazione dei consorzi di tutela delle indicazioni geografiche, Origin Italia, se la cava pubblicando sul proprio sito le definizioni ufficiali prese dal regolamento Ue 1151/2012 che paiono scritte, però, per non farsi capire. Eccole.

Con la dicitura DOP Denominazione di Origine Protetta si intende:
“il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: originario in tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese le cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani, e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nella zona geografica delimitata”.

Con la dicitura IGP Indicazione di Origine Protetta si intende:
“il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: come originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e del quale una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possono essere attribuite a tale origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell’area geografica determinata”.

Sfido chiunque a capire quali meccanismi mettano in gioco queste definizioni. Fattori naturali e umani? Qualità? Reputazione? Di cosa si parla? E nulla sulla materia prima.

IL MIO CIBO, LA TUA CONFUSIONE

Non va meglio con il sito ilmiocibo.it, iniziativa per altro lodevole, frutto di una collaborazione fra Fondazione Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura (Coldiretti) e Ministero della Salute. Nella pagina dedicata a Dop, Igp ed Stg compare infatti una infografica che ricalca purtroppo l’impostazione europea. Eccola.

 

infografica Dop Igp Stg

L’infografica che compare sul sito ilmiocibo.it

Certo, si parla di «legame (più forte nella Dop e meno forte nella igp) tra prodotto e territorio», ma quale sia questo legame non è per nulla chiaro.

TOPPA ANCHE WIKIPEDIA

Perfino Wikipedia non fa meglio e scimmiotta le definizioni comprese nel Regolamento Ue 1151/2012. Ecco cosa scrive a proposito della Dop:

L’ambiente geografico [a cui sono legate le Dop, ndA] comprende sia fattori naturali (clima, caratteristiche ambientali), sia fattori umani (tecniche di produzione tramandate nel tempo, artigianalità, savoir-faire) che, combinati insieme, consentono di ottenere un prodotto inimitabile al di fuori di una determinata zona produttiva.

E la materia prima? Per le Dop è dirimente e come abbiamo visto la sua provenienza è la caratteristica che le differenzia dalle Igp. Pure in questo caso sfido chiunque a capire fino in fondo le differenze fra le indicazioni geografiche descritte.

L’INFOGRAFICA DEL CASALINGO DI VOGHERA

Per semplificare la vita ai miei lettori ho realizzato una infografica per riassumere schematicamente il meccanismo delle tre caratteristiche il cui rispetto totale o parziale differenzia le tre indicazioni geografiche. Eccola.

differenze Dop Igp Stg

L’infografica del Casalingo di Voghera su Dop, Igp, Stg

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