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I CONSUMATORI NELLA GIUNGLA DELLE ETICHETTE EUROPEE

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Da dove viene questo prodotto? Chi lo ha confezionato? E a partire da quali materie prime? La risposta a questi tre semplici interrogativi si è trasformata in un indovinello. Senza soluzione, per almeno un prodotto su due fra quelli che acquistiamo al supermercato. Pasta, riso, salumi o formaggi (non Dop né Igp), conserve vegetali e animali, sughi di pomodoro, surgelati: al di fuori di una stretta cerchia di referenze riconducibili alle denominazioni d’origine e a poc’altro, è molto più difficile stabilire il Paese d’origine della materia prima e quello in cui il prodotto è stato trasformato e confezionato. Effetto delle nuove etichette europee divenute obbligatorie dopo l’entrata in vigore, il 13 dicembre scorso, del regolamento Ue numero 1.169 del 25 ottobre 2011, (qui potete scaricare il documento in formato pdf).

Non è la prima volta che ne parlo, da quando ho iniziato l’inchiesta sull’origine dei prodotti che pubblico sul Web dall’inizio del 2001. Prima su Etichettopoli, ora su Italiainprimapagina.it. Questa volta ho messo assieme un numero di regole utili, al momento di fare la spesa, per non cadere nel tranello delle etichette mute. Le nuove disposizioni comunitarie, in pratica, hanno abolito l’obbligo di indicare chiaramente lo stabilimento di produzione o trasformazione. Cancellando l’ultimo indizio utile al consumatore per comprendere da dove provenga quanto sta per mettere nel carrello. Ecco in sintesi le 7 regole d’oro per non lasciarsi ingannare.

Le 7 regole-CdV

1) CONFEZIONE. Leggere con la massima attenzione possibile tutte le informazioni riportate sulla confezione. Non è detto che l’indicazione d’origine o la provenienza delle materie prime (ove siano presenti) si trovino nel medesimo campo visivo della marca o della denominazione. In almeno 8 casi su 10 si trovano nel retro, magari nascoste in mezzo a decine di altre informazioni più o meno utili. Verificare anche su tappi e congegni di chiusura. Mai buttare le confezioni accoppiate a quella principale, ad esempio nei formaggi fusi, nelle mozzarelle o nei budini. Lì potrebbe trovarsi addirittura

 la data di scadenza. Inutile leggere il codice a barre o il Qr code perché solitamente indicano il titolare italiano del marchio. Nulla sull’origine prima del nuovo regolamento Ue, nulla adesso.

2) TRICOLORE. Mai fidarsi di bandierine, nastri o coccarde tricolori. Da soli, purtroppo, non raccontano nulla, men che meno sull’origine delle materie prime o sul luogo di lavorazione. È rimasto negli annali della storia alimentare italiana il caso di una nota marca di pasta italiana, che utilizza un nastro bianco, rosso e verde, assieme a un disegno di trulli pugliesi, pur ammettendo di utilizzare anche materie prime importate. Da una rilevazione empirica che ho svolto proprio su spaghetti e maccheroni, risulta che per lo meno il 20% riporta in etichetta segni e illustrazioni fuorvianti sul prodotto o sulla sua origine.

3) MADE IN… Fatto in Italia, prodotto italiano, made in Italy: purtroppo queste diciture non garantiscono in alcun modo che il prodotto sia davvero dello Stivale. Men che meno che lo sia al 100%. In assenza di norme aventi valore di legge capaci di regolarne l’utilizzo, il «made in…» viene indicato su base volontaria e non è vincolante sulla reale origine delle merci né delle materie prime utilizzate. L’ultimo tentativo per introdurre una norma in merito risale al decennio scorso: la legge non entrò mai in vigore perché la Commissione europea l’ha bocciata con un parere circostanziato sostenendo che rappresentava «un ostacolo alla libera circolazione nel mercato unico».

4) DOP & IGP. Per ogni prodotto a denominazione d’origine che si trova sui banconi dei supermercati, ne esiste per lo meno uno «tarocco» che proviene sicuramente dell’estero, anche se non è riconoscibile. Formaggi, prosciutti e salumi in genere, ma anche pasta e perfino pane. Negozi e supermercati sono il regno delle imitazioni. Quando sono in commercio specialità con il bollino Dop o Igp e si trovano in vendita frammiste ad altre che non lo hanno è bene dubitare di queste ultime. Attenzione a non lasciarsi confondere da banconi ed espositori dove gli alimenti dall’origine incerta, con nomi rigorosamente italiani, sono mischiati agli originali.

5) SUPERSCONTI. In presenza di sconti capaci di dimezzare il prezzo al pubblico di un prodotto è bene dubitare su origine e qualità. Quando un alimento viene venduto a un valore che scende al di sotto del costo all’origine della materia prima si rischiano solenni fregature. Ed è bene approfondire. Chiunque può informarsi sul sito dell’Ismea che per la maggior parte dei prodotti agricoli riporta le quotazioni medie settimanali. Ribassi importanti nei cartellini non significano necessariamente una fregatura: produttori e grande distribuzione vendono talvolta sotto costo ad esempio per liberare i magazzini o acquisire nuova clientela. Un’occhiata in più all’etichetta però non fa male.

6) MARCA. Una marca italiana non garantisce che il prodotto sia made in Italy al 100 per cento. Anche brand storici impiegano regolarmente materie prime d’importazione. Esemplare il caso dell’olio extravergine: 9 referenze su 10 fra quelle che si trovano abitualmente in vendita impiegano oli extravergini «comunitari». Eppure meno di un consumatore su 4 è cosciente di acquistare un prodotto non italiano. Potenza del brand. Un andazzo che premia la politica dell’industria alimentare: non importa da dove arrivino gli ingredienti, la garanzia sta dalla marca. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.

7) INDICAZIONE. Dove l’origine non è indicata chiaramente, la materia prima è raramente italiana e spesso anche la lavorazione o il confezionamento sono avvenuti all’estero. Succede così con il latte. Mentre per il fresco è vincolante indicare la provenienza dell’ingrediente, su quello Uht l’obbligo viene a cadere. Ed è facile mettere nel carrello cartoni dell’alimento bianco munto ad esempio in Polonia o Germania. Senza saperlo. L’indicazione dello stabilimento di confezione garantiva la possibilità di tracciare almeno l’ultima fase della lavorazione. Ora che è caduto anche quest’obbligo, diventa sempre più difficile capire cosa portiamo in tavola. Un motivo in più per scegliere il latte fresco.

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Sentenza Ue: il gallo del Chianti non si può imitare

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bottiglie di Chianti Classico

Il gallo del Chianti è salvo. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha deciso con una sentenza storica che il simbolo del vino più noto d’Italia non può essere utilizzato sull’etichetta di altre bottiglie dal momento che rappresenta un «carattere distintivo intrinseco del marchio Chianti». Confermato il parere dell’Ufficio Ue per la proprietà intellettuale (Euipo) che aveva negato la registrazione del simbolo del gallo alla Berebene Srl.

logo gallo Berebene

Il gallo Berebene

Ad opporsi alla richiesta di registrazione avanzata dalla Berebene era stato il Consorzio di tutela del Chianti Classico ottenendo  una pronuncia favorevole da parte dell’Euipo. Ma la Berebene aveva presentato ricorso alla Corte di giustizia Ue. Ieri il verdetto.

Durissime le motivazioni della sentenza (qui il link). I giudici di Strasburgo sottolineano l’esigenza «al di là del grado di somiglianza tra i due segni, di evitare fenomeni di parassitismo commerciale. Infatti, vista l’elevata notorietà e il carattere distintivo intrinseco del marchio Chianti, il fatto di utilizzare un segno avente una certa somiglianza con esso proprio per dei vini presenta un rischio concreto che il pubblico di riferimento associ l’immagine del gallo del marchio della Berebene ai vini Chianti». E in effetti i due simboli, a parte il soggetto, si assomigliano poco. Ma la Corte Ue ha stabilito che nei consumatori si logo Chianti Classicosarebbe potuta ingenerare lo stesso confusione.

Una decisione che ribalta di fatto alcune sentenze dannose per il made in Italy a tavola. Come quella che autorizzava un’azienda agricola belga a mettere in vendita pomodori “San Marzano”, con una evocazione clamorosa ai danni della Dop Pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese Nocerino.

Vale la pena di segnalare che la Berebene Srl ha sede a Roma e francamente fa specie che una società italiana pensi di poter registrare un marchio contenente il simbolo di un vino di grande tradizione come il Chianti. I nostri prodotti – proprio a cominciare dai vini –  sono già oggetto di falsificazioni in tutto il mondo da parte di taroccatori fin troppo agguerriti. Quando le imitazioni arrivano da casa nostra sono ancora meno scusabili.

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Scoppia la guerra del pomodoro pelato

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pomodoro pelato

Puglia contro Campania: scoppia la guerra del pomodoro pelato. Dopo lo scontro sulla Mozzarella di Gioia del Colle Dop le due regioni arrivano nuovamente ai ferri corti. Questa volta per la solanacea rossa lavorata e inscatolata. A scatenare lo scontro è stata la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il 13 marzo 2021,  della richiesta di riconoscimento del Pomodoro pelato di Napoli Igp. La pratica ha già avuto il via libera dal nostro Ministero delle Politiche agricole. Ora manca soltanto l’imprimatur della Ue. Ma si tratta, a questo punto, di un passaggio formale.

Donato Pentassuglia pomodoro pelato

Donato Pentassuglia

Ai produttori pugliesi, però, non sta bene. L’assessore pugliese all’Agricoltura Donato Pentassuglia ha annunciato che la Regione si opporrà al riconoscimento. «Ci sono sessanta giorni di tempo per farlo e abbiamo quasi istruito il fascicolo», ha puntualizzato. Il motivo? Secondo i pugliesi il 90% della produzione di pelato si concentra nella provincia di Foggia. Dunque, a rigor di logica, l’Indicazione geografica protetta spetterebbe al pomodoro foggiano. Una diatriba che si trascina da almeno quattro anni ed è esplosa quando il testo con il placet del ministero è finito sulla Gazzetta Ufficiale. Ma siamo soltanto all’inizio.

IN CAMPO L’ASSOCIAZIONE CONSERVE VEGETALI

Antonio Ferraioli

Antonio Ferraioli

Sulla questione è intervenuto anche Antonio Ferraioli, presidente dell’ Anicav (Associazione nazionale industriali conserve vegetali), nata a Napoli nel 1945. «Riteniamo sia giusto fare chiarezza», ha fatto  sapere in una nota, «perché l’Indicazione geografica protetta, come si evince molto chiaramente dal disciplinare di produzione, non riguarda assolutamente la materia prima ma il prodotto trasformato, appunto il pomodoro “pelato”. Per questo motivo non si fa alcun riferimento alla provenienza del pomodoro fresco, che tutti sanno venire per la maggior parte dalla Puglia». Fra l’altro l’Igp non lega indissolubilmente l’alimento alla zona di produzione della materia prima, come accade ad esempio per Bresaola della Valtellina e Speck dell’Alto Adige che possono essere fatti a partire da carne proveniente dai cinque continenti.

Per le Dop (Denominazioni d’origine protette) devono sussistere  tre condizioni irrinunciabili:  origine del prodotto, ricetta tradizionale e luogo di trasformazione in una zona ben definita. Per le Igp bastano due di queste tre condizioni. E nel caso del Pomodoro pelato di Napoli Igp le due condizioni sono la ricetta tradizionale e il luogo di trasformazione.

TRASFORMAZIONE E MATERIE PRIME

Semmai si potrebbe discutere sul fatto che il Pomodoro pelato di Napoli Igp, da disciplinare  (qui il link), si possa produrre non soltanto nel Napoletano, ma nel «territorio amministrativo delle Regioni Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise e Puglia». Così, l’impianto di lavorazione e confezionamento potrebbe trovarsi, addirittura, in provincia di Teramo, pur sfornando il Pelato di Napoli. Ma non si tratterebbe  del primo e nemmeno dell’unico caso.

Il Prosciutto di Parma Dop, ad esempio, prevede che la zona tipica di produzione «comprenda il territorio della provincia di Parma posto a sud della via Emilia a distanza da questa non inferiore a cinque chilometri, fino ad una altitudine non superiore a 900 metri, delimitato ad est dal corso del fiume Enza e ad ovest dal corso del torrente Stirone». Dunque il vincolo dei salumifici al territorio è molto stringente. Ma il Parma Dop si può fare a partire da cosce di suini nati, allevati e macellati in Italia, provenienti però da 10 regioni italiane: Emilia- Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte, Molise, Umbria, Toscana, Marche, Abruzzo e Lazio (qui il link).

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Com’è difficile capire cosa siano le Dop e le Igp

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Dop e Igp sono le sigle che individuano i prodotti alimentari legati ai territori e alle tradizioni che questi luoghi esprimono. Un cibo a Denominazione d’origine protetta, Dop in sigla, deve rispettare tre caratteristiche:

  1. essere fatto sulla base di una ricetta tradizionale comprovata, consolidata nel tempo e strettamente legata ai luoghi in cui viene prodotto;
  2. utilizzare soltanto materie prime italiane provenienti dalle zone rigorosamente fissate dal disciplinare di produzione (spiego fra poco cosa sia il disciplinare):
  3. il luogo di produzione o trasformazione si trovi in Italia, in una zona fissata sempre dal disciplinare, solitamente uno o più comuni limitrofi

Gli alimenti a Indicazione geografica protetta, invece, devono rispettare due di queste tre condizioni. E se si eccettuano le Igp vegetali – ad esempio il Cappero di Pantelleria o la Cipolla Rossa di Tropea – di solito le due caratteristiche rispettate sono:

  1. ricetta tradizionale comprovata;
  2. luogo di produzione o trasformazione in Italia (ma non potrebbe essere diversamente).

La materia prima utilizzata nelle Igp, invece, non è necessariamente italiana e può arrivare da ogni parte del mondo., come avviene per esempio per la Bresaola della Valtellina Igp, lo Speck dell’Alto Adige Igp e la Mortadella di Bologna Igp.

Poi esistono pure le Stg (Specialità tradizionali garantite) che sono delle Igp ancora meno legate al territorio e devono in sostanza rispettare la ricetta. In tutto sono tre: mozzarella, pizza napoletana e amatriciana tradizionale.

Ecco, comunque, i tre bollini che identificano quelle che nel gergo tecnico si definiscono «indicazioni geografiche».

bollini Dop Igp Stg

Ecco i bollini di Dop, Igp ed Stg

Per semplificare, dunque. le Dop devono rispettare tre condizioni su tre, le Igp soltanto due su tre e le Stg appena una. Ma questa semplificazione è mia e vi confesso che ho impiegato anni a elaborarla nella maniera che vi ho appena esposto. Qualora un consumatore volesse approfondire sulle fonti ufficiali cosa siano Dop, Igp ed Stg ben difficilmente ci capirebbe qualcosa. Faccio alcuni esempi.

ORIGIN ITALIA

L’associazione dei consorzi di tutela delle indicazioni geografiche, Origin Italia, se la cava pubblicando sul proprio sito le definizioni ufficiali prese dal regolamento Ue 1151/2012 che paiono scritte, però, per non farsi capire. Eccole.

Con la dicitura DOP Denominazione di Origine Protetta si intende:
“il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: originario in tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese le cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani, e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nella zona geografica delimitata”.

Con la dicitura IGP Indicazione di Origine Protetta si intende:
“il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: come originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e del quale una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possono essere attribuite a tale origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell’area geografica determinata”.

Sfido chiunque a capire quali meccanismi mettano in gioco queste definizioni. Fattori naturali e umani? Qualità? Reputazione? Di cosa si parla? E nulla sulla materia prima.

IL MIO CIBO, LA TUA CONFUSIONE

Non va meglio con il sito ilmiocibo.it, iniziativa per altro lodevole, frutto di una collaborazione fra Fondazione Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura (Coldiretti) e Ministero della Salute. Nella pagina dedicata a Dop, Igp ed Stg compare infatti una infografica che ricalca purtroppo l’impostazione europea. Eccola.

 

infografica Dop Igp Stg

L’infografica che compare sul sito ilmiocibo.it

Certo, si parla di «legame (più forte nella Dop e meno forte nella igp) tra prodotto e territorio», ma quale sia questo legame non è per nulla chiaro.

TOPPA ANCHE WIKIPEDIA

Perfino Wikipedia non fa meglio e scimmiotta le definizioni comprese nel Regolamento Ue 1151/2012. Ecco cosa scrive a proposito della Dop:

L’ambiente geografico [a cui sono legate le Dop, ndA] comprende sia fattori naturali (clima, caratteristiche ambientali), sia fattori umani (tecniche di produzione tramandate nel tempo, artigianalità, savoir-faire) che, combinati insieme, consentono di ottenere un prodotto inimitabile al di fuori di una determinata zona produttiva.

E la materia prima? Per le Dop è dirimente e come abbiamo visto la sua provenienza è la caratteristica che le differenzia dalle Igp. Pure in questo caso sfido chiunque a capire fino in fondo le differenze fra le indicazioni geografiche descritte.

L’INFOGRAFICA DEL CASALINGO DI VOGHERA

Per semplificare la vita ai miei lettori ho realizzato una infografica per riassumere schematicamente il meccanismo delle tre caratteristiche il cui rispetto totale o parziale differenzia le tre indicazioni geografiche. Eccola.

differenze Dop Igp Stg

L’infografica del Casalingo di Voghera su Dop, Igp, Stg

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